Il giorno prima di Natale
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Sari - Natale 2022
L'autostrada è "lunga e diritta", come quella cantata da Guccini ma la sua situazione è completamente diversa... lui non corre, non ha fretta e la notte è quieta e serena.
S'è messo in viaggio a sera inoltrata con la certezza che ogni via fosse sgombra ma anche se un po' di traffico c'è non se ne lamenta perché non ha fretta d'arrivare. D'altra parte il giorno che a breve sorgerà sarà quello di Natale e ogni cuore si sa, desidera trascorrerlo accanto a un qualsiasi focolare.
Viaggia da un'ora e quel lasso di tempo è bastato per permettergli di sentirsi tutt'uno con il mezzo... viaggiare gli piace e sente che potrebbe farlo all'infinito. Da qualche minuto non vede cumuli di neve lungo i bordi dell'autostrada perciò abbassa di qualche centimetro il vetro del finestrino e al soffio d'aria pura che l'investe stupisce per la gioia che gli procura. Quell'aria pare smentire l'arrivo del Natale, quasi che quella ricorrenza abbia bussato ad uno sfinito autunno per chiedergli ancora una manciata di giorni buoni, atti a riunire i lontani alle famiglie.
Nell'ampia visuale che il percorso permette, e nel buio dell'ora, il lungo tratto di strada davanti a sè è un nastro lungo e luminoso che, punteggiato dai fanalini rossi delle auto, pare una decorazione natalizia. D'altronde è la vigilia di Natale e anche se si crede agnostico, gli fa piacere ritornare a casa proprio quel giorno.
Natale... i ricordi di quando era bambino arrivano con il grande presepio di terracotta della sua parrocchia, tanto bello da stridere con le case del paese, quasi tutte povere e sguarnite. E ricorda i festoni, i dolci di mandorla e le luci dell'albero natalizio che non era un abete ma un annoso cipresso dalle bacche appiccicose e profumate.
E' lontano quel tempo e la sua è un'assenza di vent'anni. Questa considerazione gli smorza il sorriso al pensiero di quel che troverà. Molte cose saranno cambiate e allora... perché tornare? Vent'anni sono tanti. Quando quella porta di ferro si era chiusa alle sue spalle lui era solo un ragazzino appena maggiorenne mentre ora è un uomo fatto. I suoi genitori sono morti da anni, nessuna casa lo aspetta e forse, al paese, nessuno lo riconoscerà... ma lui desidera ugualmente tornare e quello è un bisogno di cui sa poco o nulla.
Il tempo tutto cambia e anche lui è cambiato. La leggerezza che era sua fino a un attimo prima ora non c'è più, sente i pensieri affastellarsi e quasi automaticamente allunga la mano e accende la radio.
Iso radio sta tramettendo buona musica ma poi, chissà perché, preme ripetutamente la levetta per scorrere i canali e la cacofonia di suoni che sfilano in corsa da una emittente all'altra già lo solleva. Sta per tornare alla frequenza da cui era partito quando una voce gli ferma le dita. "Il senso filosofico della pena", recita una speaker e lui, improvvisamente attento, si mette in ascolto perché l'argomento lo interessa, lo riguarda.
Qualcuno sta parlando di colpa ed espiazione, della differenza che passa fra il giudizio della Legge e quello morale e afferma che la pena non deve essere castigo. Quando era stato giudicato, lui aveva pensato che la colpa fosse un argomento di cui nessuno sapeva granché, pur parlandone, e quella certezza era stato un aggravio di pena.... e poi che cos'è colpa... che ne sapevano loro, i giudicanti, se lui era colpevole per davvero o non fosse piuttosto una vittima? I luoghi, la famiglia dove era cresciuto, erano stati il suo destino a cui non aveva saputo sottrarsi e s'era trovato in situazioni ed incombenze che non gli piacevano ma erano naturali, ben più di quanto i giudicanti sapessero.
Era nato lì, in quegli anni, in quelle terre, in quella famiglia... era forse quella la colpa? Che ne sapeva la gente di cosa avesse significato per lui, figlio obbligato, abitare in quella casa dove era naturale quell'attività che le leggi condannano?
Quella era stata l'unica vita che aveva conosciuta, fatta di regole che l'avevano costretto senza possibilità di scelta. Erano quella di suo padre, suo zio, del fratello che non c'era più... e aveva dovuto osservarle anche lui.
L'aria che entra dalla breve apertura del finestrino ora gli pare umida e fredda, preme il pulsante e lo chiude.
La segnaletica luminosa dell'autostrada gli comunica che un'area di sosta è a un paio di chilometri... un buon caffè gli permetterà di prendere le distanze da quei vent'anni in cui aveva desiderato spasmodicamente e inutilmente le visite dei familiari, d'un viso conosciuto o di poter gustare una leccornia della sua terra.
Parcheggia nell'area di sosta dell'autogrill ma non scende. Non ancora. Ascolta la radio e pensa. La legge morale. Cos'era morale e cosa immorale? Chi avrebbe dovuto insegnargli a distinguere e quindi a separare?
Spegne la radio e ascolta i suoi pensieri.
Aveva diciott'anni e altri venti li aveva vissuti in carcere; un luogo che inizialmente l' aveva visto preda di desideri di vendetta e rivalsa fino a quando una persona molto paziente gli aveva prospettato un piano di studi e un diverso avvenire. Lui l'aveva irriso, detto no, che non era capace, che era inutile, che lui sapeva, desiderava, sperava, era certo che..
Quel che non aveva capito, dopo il processo, era cos'altro si pretendesse da lui... il giudice aveva emesso una sentenza, lui avrebbe pagato e, scontata la pena, nessun altro poteva intromettersi nella sua vita e nessun altro aveva diritti da far valere.
Era rabbioso perché, a quel tempo, si era sentito ingiustamente costretto a una pena tanto lunga e si rende conto, solo ora che si osserva di lontano, che le fatiche dello studio, più degli argomenti trattati, l'avevano calmato, curato. Ma era stata l'università a dare un senso al suo impegno, a costringerlo a quei libri che gli avevano insegnato a pensare, al senso della vita, della giustizia e ad avvicinare a sè quel prossimo che poteva considerare suoi pari.
Un giorno, forse, li avrebbe chiamati fratelli.
"Ama e fai quel che ti pare", recitava il sacerdote che una volta la settimana faceva visita a quelli come lui. Lui che, nel suo passato, non sapeva di avere il diritto di fare "quel che gli pareva" ed aveva obbedito... con modi da spaccone, certo, ma aveva obbedito.
Scende dall'auto e al bancone del bar esibisce lo scontrino appena emesso dalla cassa. Osserva la stanchezza nei gesti di chi gli sta preparando lo spuntino da asporto, ringrazia ed esce con l'involucro.
Seduto nell'auto, ora, sorseggia il caffè, addenta il panino che è appetitoso e mentre mastica adagio, sorride pensando al ragazzo che era, sicuro del niente...
Si chiede quando l'idea dello studio aveva messo radici fino a farlo appassionare... li ricorda tutti quegli anni duri, e quante volte aveva pensato di cedere, di lasciarsi trasportare da compagni che ancora non sapevano. Aveva resistito grazie a una persona ostinata che l'aveva sfidato, spronato e sostenuto. E così era riuscito a ottenere una laurea in giurisprudenza. Ora, libero da nove mesi, aveva un posto di lavoro, una casa e un progetto di vita.
All'ultimo sorso di caffè, sorride quasi intenerito al ragazzo che è entrato in carcere e che ora gli pare un'altra persona.
Gira la chiavetta, mette in modo l'auto e imposta il navigatore. Si rende conto, ora che tutto gli è chiaro, che quella discussione radiofonica gli ha rimesso a posto il cuore e può pensare al carcere come a un utero che, dopo lunga gestazione, l'ha partorito a nuovo.
Non tornerà al suo paese perché ha un unico desiderio: abitare pienamente la sua vita, quella nuova e vera. L'unica sua.
La voce radiofonica che l'ha portato a pensieri necessari ha lasciato il posto a un concerto di musica classica. La musica gli piace ma spegne la radio a cui ora è grato. Gli sono occorsi molti anni per formarsi e capire quella legge morale alla quale era giusto e necessario obbedire... anni che hanno annullato ogni impronta passata e ogni desiderio di rivalsa.
Natale... un Bambino fra poche ore nascerà ad un mondo che lo festeggerà esageratamente per scordarsi di lui due giorni dopo. Improvvisamente gli pare di sentire la voce della nonna dirgli che il Bambino è nato per insegnarci come stare al mondo e solo ora capisce quel che intendeva dirgli. Lui ora crede di sapere come "stare al mondo" e pensa al futuro che lo aspetta e per cui si sente pronto.
Una nuova consapevolezza lo assale... sente un groppo di qualcosa che potrebbe essere felicità invadergli lo stomaco e quel peso è talmente leggero che gli pare di volare.
Il navigatore lo avverte dell'uscita che gli permetterà di invertire la rotta di viaggio.
Tornerà a casa, la sua. L'unica casa, quella desiderata, quella nuova per la persona nuova che ora è. Non desidera altro che proseguire nella costruzione di se stesso edificando quel futuro che ora gli è possibile. I suoi anni sono ancora pochi e lui è ancora in tempo.
L'autostrada gli permette di viaggiare a velocità costante e può calcolare le due ore che gli sono necessarie per aprire la porta di casa sull'abete ornato di quei ciondoli che sanno moltiplicare la luce mentre nel presepio dorme già un Piccolino.
Respira a fondo scoprendosi leggero e, per la prima volta, comprende quanto siano state necessarie quelle inferriate che gli hanno cambiato la vita.
Il caffè e lo spuntino l'hanno ristorato e gli permettono di non sentire la stanchezza del viaggio. A destra, in lontananza , vede tante luci e gli pare di sentire le campane suonare. Abbassa il vetro del finestrino e viene investito dallo scampanìo e da un piacevole profumo di pino. Il cruscotto gli mostra l'ora: è mezzanotte da qualche minuto e lui non si è mai sentito così... così certo, appagato e felice... un Bambino è appena nato e quel Bimbo gli pare d'essere lui.
Non si sente blasfemo e non c'è di che stupirsi: è Natale.
Sari - Natale 2022
A mani vuote
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Silvano Fausti
Ai tempi di Erode, la notte in cui nacque Gesù, gli angeli portarono la buona notizia ai pastori. C'era un pastore poverissimo, tanto povero che non aveva nulla. Quando i suoi amici decisero di andare alla grotta portando qualche dono, invitarono anche lui. Ma lui diceva: "Io non posso venire, sono a mani vuote, che posso fare?".
Ma gli altri tanto dissero e fecero, che lo convinsero.
Così arrivarono dov'era il bambino, con sua Madre e Giuseppe.
Maria aveva tra le braccia il bambino e sorrideva, vedendo la generosità di chi offriva cacio, lana o qualche frutto.
Scorse il pastore che non aveva nulla e gli fece cenno di venire.
Lui si fece avanti imbarazzato.
Maria, per avere libere le mani e ricevere i doni dei pastori, depose dolcemente il bambino tra le braccia del pastore che era a mani vuote...
La pazienza della Stella Cometa
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Sari
Isaia il profeta, nell'antico racconto tramandato di generazione in generazione per settecento anni, aveva promesso un Salvatore e il popolo fedele lo aspettava.
Ma il Re non arrivava e dopo tanti anni l'umanità si stancò di aspettare. I più dimenticarono la profezia, altri pensarono ad un inganno, altri ad un sogno e altri ancora di non avere alcun bisogno di un salvatore. Il mondo cambiò e fu così che quando i tempi furono maturi, la Stella Cometa che annunciava il Salvatore non trovò nessuno ad attenderla.
La videro Magi e Pastori, gente attenta, che veglia, e dal giorno della straordinaria nascita del Salvatore, il mondo non fu più lo stesso e un vento di Speranza e Gioia percorse la Terra.
Ma il mondo cambiò ancora, il Natale divenne una festa antica, venne tramandato come leggenda e il messaggio d'Amore e Pace fu annacquato, disperso, confuso fra attrazioni, impegni, nuovi bisogni e canti di sirene. Il mondo dimenticò e la nuova modernità che dettava legge con lo scettro dell'economia, imperò. Ma a furia di produzioni sconsiderate, di miasmi e veleni, la Terra divenne un luogo povero e inospitale. Il disastro era evidente in ogni ambiente e gli ortaggi dovettero essere coltivati in serre dove crescevano a nutrimenti e pesticidi. I pochi alberi esterni, senza il necessario ossigeno, non producevano nè frutti nè foglie e parevano dita disperate ad invocare aria e una possibile vita.
Solo un'unica foglia era rimasta attaccata al ramo d'un resistente albero e quasi era possibile sentire lo spasmodico sforzo della pianta che, ormai allo stremo, non s'arrendeva.
Fu allora che si chiese alla Cometa paziente di rimettersi in viaggio.
Arrivò sulla Terra in una notte serena agitando lievemente la lunga coda splendente ma l'umanità, ormai ingobbita su cellulari e diavolerie varie, non la notò. Allora si mise a zigzagare compiendo evoluzioni e tutto ciò che poteva servire ad attirare l'attenzione degli uomini... ma nulla accadeva.
La Stella allora potenziò il suo lucore, chiese voce al tuono, potenza al vento e impertinenza alla grandine ma... niente. Le persone alzavano il bavero dei mantelli, si chiudevano nelle giacche a vento e non davano udienza.
La faccenda era oltremodo scoraggiante ma la Stella non s'arrese (s'era mai vista la resa d'una Cometa?)... e con un guizzo si abbassò fin dove potè osare e volò su strade, mari, palazzi ma ahimè, l'umanità pareva insensibile, ormai perduta e la Stella, stanca, dovette fermarsi a riposare e pensare.
Poi...
Il mondo improvvisamente zittì e immobilizzò nel momento in cui quell'unica foglia rimasta sull'albero staccò dalla pianta e in un silenzio fragoroso, cadde al suolo.
Per infiniti attimi tutto si fermò fino a che...
... fino a che una bambina alzò lo sguardo, vide la Stella, l'additò e disse: che bella!
Quella parola fu magìa, di quelle che sciolgono gli incantesimi nelle fiabe e aprono porte... e il mondo, divenuto improvvisamente consapevole, Vide, Capì, Ricordò, Riparò.
Le case dei vecchi furono prese urgentemente d'assalto per spremerne i ricordi, la tecnologia fu accantonata, il commercio cadde, le rare biblioteche furono riaperte e il mondo si apprestò a cambiare rotta e a interrogarsi sulla venuta della Stella.
Lei, dall'alto, ammiccò, fece strada e, a mezzanotte del 24 dicembre, guidò l'umanità a un angolo di mondo dove un neonato emise un vagito spargendo Speranza e Gioia in ogni cuore.
Scompigli natalizi
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Sari
Con un clik del mouse apro il File delle emoticon per fare un po' d'ordine e... che succede? Nell'aria c'è un'aria mesta che m'insospettisce. La gif che solitamente porge a tutti un fiore e un sorriso ha le braccia conserte e quella furbetta che solitamente strizza l'occhio a tutti ha la bocca piegata all'ingiù. E quella che piange a fontana? Lei sta addirittura stringendo uno straccetto zuppo.
- Che sucede? Forse è in atto un nuovo gioco di gruppo?
Nessuna mi risponde e comincio ad allarmarmi quando vedo sui diavoletti dalla faccia solitamente rossa e furibonda un'aria triste e sconsolata. Che succede? Saranno malate? Esiste un virus che colpisce le giffettine? Oh presto, si chiami un web-dottore!
- Giffettine care, ditemi, che succede?
La gif capofila, misurata e saggia come sempre, mi guarda e tenta un sorriso.
- Siamo tanto tristi perchè dappertutto c'è traccia del Natale in arrivo mentre qui non palpita una sola stellina, non un piccolo brillìo, manca un dolcetto, un bastoncino di zucchero filato e lo spirito del Natale non entrerà mai e poi mai in questa nostra stanza così disadorna. Dicci, meritiamo tutto questo? Siamo forse state cattive? Non sarà per via di quei due rossi satanacci che abitano con noi? Beh quelli, a dire il vero, di cattivo hanno solo la faccia perchè sono tutti bravi diavoli...
- Tutto qua giffina?
- Come puoi dire "tutto qua" mentre noi siamo tanto avvilite...
- Ok ok, hai ragione ma adesso torna a sorridere perchè credo di sapere come farvi contente.
- Davvero?
- Davvero, o almeno lo spero. Chiudete gli occhi e aspettatemi.
Lascio aperta la cartella delle solite gif e apro quella delle gif natalizie che trovo sempre allegre e animate. Le convinco a traslocare e..
- Potete aprire gli occhietti care giffettine.
Oh! Oh! Oh!
Nei minuti successivi succede di tutto... la gif con i bastoncini di zucchero distribuisce i suoi tesori a destra e manca, quella che gioca con le lucine colorate addobba tutto il File, il diavoletto rosso ha nuovamente il suo ghigno furibondo ma ride a crepapelle sfrecciando sul bob della gif natalizia... le gif mischiano allegramente e il chiasso è tremendo.
Attendo dieci minuti poi scuoto la gif-campanella per richiamare attenzione.
- Siete felici?
Mi risponde un coro di sì ma... io non sorrido.
- Mi si diceva pocanzi che lo spirito del Natale non sarebbe entrato qui, per via della mancanza dei segni del Natale - dico con la voce dell'oratore in vena d'invettive - e ora che siete tutte appiccicose di zucchero e cannella credete che entrerà?
Silenzio.
Vorrei mantenere il viso severo ma non ce la faccio, sorrido e dico che lo Spirito sarebbe entrato prima che infuriasse la malinconia così come adesso che hanno le facciotte impiastricciate di dolci.
- Perchè lui non ha bisogno di lustrini e colori - proseguo - lui guarda il cuore. Il vostro com'è?
Le facciotte che parevano già sollevate si ricompongono e abbassano il capino, incerte e timorose di quel cuore a cui non avevano pensato.
- Il vostro cuore - proseguo - lo so, è puro.
Allargo le braccia, rido
- ... e lo Spirito del Natale entrerà e farà festa con voi.
Un coro di urrah straripa dal File e invade tutto il pc.
- Beh, finite le prediche potete tornare a giocare e sorridere... voi diavolacci siete dispensati... so bene quanto tenete al vostro ruolo.
Ma i diavoletti non ce la fanno a mantenere la solita posizione e ridono.
- Ed ora venite tutte qua, voglio scattarvi una foto natalizia... pronte?
Cheeeeeessssss...
Click!
- Che sucede? Forse è in atto un nuovo gioco di gruppo?
Nessuna mi risponde e comincio ad allarmarmi quando vedo sui diavoletti dalla faccia solitamente rossa e furibonda un'aria triste e sconsolata. Che succede? Saranno malate? Esiste un virus che colpisce le giffettine? Oh presto, si chiami un web-dottore!
- Giffettine care, ditemi, che succede?
La gif capofila, misurata e saggia come sempre, mi guarda e tenta un sorriso.
- Siamo tanto tristi perchè dappertutto c'è traccia del Natale in arrivo mentre qui non palpita una sola stellina, non un piccolo brillìo, manca un dolcetto, un bastoncino di zucchero filato e lo spirito del Natale non entrerà mai e poi mai in questa nostra stanza così disadorna. Dicci, meritiamo tutto questo? Siamo forse state cattive? Non sarà per via di quei due rossi satanacci che abitano con noi? Beh quelli, a dire il vero, di cattivo hanno solo la faccia perchè sono tutti bravi diavoli...
- Tutto qua giffina?
- Come puoi dire "tutto qua" mentre noi siamo tanto avvilite...
- Ok ok, hai ragione ma adesso torna a sorridere perchè credo di sapere come farvi contente.
- Davvero?
- Davvero, o almeno lo spero. Chiudete gli occhi e aspettatemi.
Lascio aperta la cartella delle solite gif e apro quella delle gif natalizie che trovo sempre allegre e animate. Le convinco a traslocare e..
- Potete aprire gli occhietti care giffettine.
Oh! Oh! Oh!
Nei minuti successivi succede di tutto... la gif con i bastoncini di zucchero distribuisce i suoi tesori a destra e manca, quella che gioca con le lucine colorate addobba tutto il File, il diavoletto rosso ha nuovamente il suo ghigno furibondo ma ride a crepapelle sfrecciando sul bob della gif natalizia... le gif mischiano allegramente e il chiasso è tremendo.
Attendo dieci minuti poi scuoto la gif-campanella per richiamare attenzione.
- Siete felici?
Mi risponde un coro di sì ma... io non sorrido.
- Mi si diceva pocanzi che lo spirito del Natale non sarebbe entrato qui, per via della mancanza dei segni del Natale - dico con la voce dell'oratore in vena d'invettive - e ora che siete tutte appiccicose di zucchero e cannella credete che entrerà?
Silenzio.
Vorrei mantenere il viso severo ma non ce la faccio, sorrido e dico che lo Spirito sarebbe entrato prima che infuriasse la malinconia così come adesso che hanno le facciotte impiastricciate di dolci.
- Perchè lui non ha bisogno di lustrini e colori - proseguo - lui guarda il cuore. Il vostro com'è?
Le facciotte che parevano già sollevate si ricompongono e abbassano il capino, incerte e timorose di quel cuore a cui non avevano pensato.
- Il vostro cuore - proseguo - lo so, è puro.
Allargo le braccia, rido
- ... e lo Spirito del Natale entrerà e farà festa con voi.
Un coro di urrah straripa dal File e invade tutto il pc.
- Beh, finite le prediche potete tornare a giocare e sorridere... voi diavolacci siete dispensati... so bene quanto tenete al vostro ruolo.
Ma i diavoletti non ce la fanno a mantenere la solita posizione e ridono.
- Ed ora venite tutte qua, voglio scattarvi una foto natalizia... pronte?
Cheeeeeessssss...
Click!
Salvataggi
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dal web
Fu il tintinnio dei vetri, il leggero tremolare della casa, un rumore sordo e vibrante, a distogliere Samuele dalla costruzione del suo Presepio. Si accorse che un elicottero stava girando basso sulla sua casa, cercando di atterrare nel campo vicino.
Una volta atterrato, senza spegnere i motori e l'ala rotante, scendono da esso due uomini, caricano in fretta un ferito e l'elicottero riparte, alzandosi verticalmente verso il cielo con il suo nuovo carico umano.
Samuele sta alla finestre con il naso all'insù, finché quel concentrato di ingegneria umana non scompare nel cielo.
Ritorna poi al suo Presepio, guardando la capanna, guardando il Bambino Gesù...
...anche Lui è sceso dal cielo per caricare l'uomo ferito e portarlo a volare verso la salvezza... per dare ad ogni uomo una forza nuova per non strisciare più sulla terra, ma per volare sempre in alto, insieme a Lui, che è l'Amore del Padre.
Se accoglieremo Gesù nel nostro cuore, vivremo volando su questa misera terra, verso una salvezza gioiosa e festante.
Perchè alla grotta c'erano solo il bue e l'asino
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dal web
Mentre Giuseppe e Maria erano in viaggio verso Betlemme, un angelo radunò tutti gli animali per scegliere i più adatti ad aiutare la Santa Famiglia nella stalla. Per primo, naturalmente, si presentò il leone.
“Solo un re è degno di servire il Re del mondo”, ruggì “io mi piazzerò all'entrata e sbranerò tutti quelli che tenteranno di avvicinarsi al Bambino!”.
“Sei troppo violento” disse l'angelo.
Subito dopo si avvicinò la volpe. Con aria furba e innocente, insinuò: “Io sono l'animale più adatto. Per il figlio di Dio ruberò tutte le mattine il miele migliore e il latte più profumato. Porterò a Maria e Giuseppe tutti i giorni un bel pollo!”
“Sei troppo disonesta”, disse l'angelo.
Tronfio e splendente arrivò il pavone. Sciorinò la sua magnifica ruota color dell'iride: “Io trasformerò quella povera stalla in una reggia più bella dei palazzo di Salomone!”.
“Sei troppo vanitoso” disse l'angelo.
Passarono, uno dopo l'altro, tanti animali ciascuno magnificando il suo dono. Invano. L'angelo non riusciva a trovarne uno che andasse bene. Vide però che l'asino e il bue continuavano a lavorare, con la testa bassa, nel campo di un contadino, nei pressi della grotta. L'angelo li chiamò: “E voi non avete niente da offrire?”.
“Niente”, rispose l'asino e afflosciò mestamente le lunghe orecchie, “noi non abbiamo imparato niente oltre all'umiltà e alla pazienza. Tutto il resto significa solo un supplemento di bastonate!”. Ma il bue, timidamente, senza alzare gli occhi, disse: “Però potremmo di tanto in tanto cacciare le mosche con le nostre code”.
L'angelo finalmente sorrise: “Voi siete quelli giusti!”.
Il finale di Guido
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dal web
Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato bocciato due volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma benvoluto dai compagni. Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli.
L'avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute e il fisico di Guido avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria:“Andate via!”
La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e parenti. Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini. E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario dipinto. Guido il locandiere era là, in attesa.
Che cosa volete?” chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
“Cerchiamo un alloggio”.
“Cercatelo altrove. La locanda è al completo”. La recitazione di Guido era forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
“Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e siamo stanchi morti”.
“Non c'è posto per voi in questa locanda”, replicò Guido con faccia burbera.
“La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle un angolino. Non ne può più”.
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d'imbarazzo tra il pubblico.
“No! Andate via!” sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
“No!” ripeté Guido automaticamente. “Andate via!”.
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.
Tutt'a un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre. “Non andar via, Giuseppe” gridò Guido. “Riporta qui Maria”. E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse: “Potete prendere la mia stanza”.
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a pallino la rappresentazione.
Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più natalizia di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.
Il Rosso
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Sari
Quell’anno il cielo alto era particolarmente affollato ed il
viavai di angeli era talmente caotico che ci sarebbe voluto
un semaforo a evitare ingorghi fra le stradine del cielo. Mai si era visto niente di simile in Paradiso
e il motivo di tanta confusione era presto detto: una miriade di angioletti,
freschi di accademia, era giunta a prendere servizio in vista dell’imminente
Natale ma se la buona volontà era da elogiare, la fremente impazienza era certamente
d’intralcio.
I vecchi angeli, che pure avevano chiesto rinforzi, se ne erano
già pentiti perché i novellini erano d’ingovernabile entusiasmo e tenerli sotto
controllo affinché non combinassero pasticci era pressoché impossibile. E che
dire del fatto che chiamassero san Pietro “Sampi”?
- Un poco di rispetto, o giovani – tuonava bonariamente l’angelo
anziano senza successo.
San Pietro detto “Sampi” del fatto sorrideva perché quel
nomignolo era un segno di vicinanza e di amicizia. E poi, suvvia, erano angioletti giovani,
ancora senza le ali ed era necessario avere tanta pazienza per educarli alle
attività del cielo dicembrino.
Fra i tanti angioletti, ce n’era uno più vivace degli altri che
correva incessantemente a destra e manca senza costrutto, faceva domande di cui
non aspettava la risposta e s’intrufolava nei discorsi degli anziani
interrompendo il loro lavoro. Era una vera disperazione ma era pur sempre un
angioletto ed era piccolo, il più piccolo e si chiamava… già, come si
chiamava?... nessuno pareva saperlo perché tutti lo chiamavano il Rosso.
Rosso era esile, aveva grandi occhi nocciola, un sorriso
dolce che a volte pareva assumere contorni sfrontati e una folta chioma di
capelli fulvi. Un ciuffo ribelle gli
copriva interamente l’occhio destro e l’angelo più intransigente diceva che
quel ciuffo gli faceva venire una gran voglia di prendere un paio di forbici e…
zac.
- Un angelo deve avere la vista aguzza, perbacco, e quel piccoletto
con un occhio coperto non può di certo adempiere ad alcun dovere – diceva con
convinzione.
Il Rosso pareva non ascoltare le chiacchiere sul suo ciuffo e
si dava un gran daffare, si offriva d’aiutare
chiunque gli capitasse a tiro e spesso inciampava nell’orlo della veste che,
oltre ad essergli abbondante, aveva qualche macchia qua e là.
Come tutti gli angeli cadetti del suo corso, non aveva
ancora le ali perché quelle se le doveva meritare ma non vedeva l’ora, come
tutti i compagni, di averle. Non che le
volesse per vantarsene, affatto, ma sarebbero stata la prova d’essere sulla via
giusta per fare del bene all’umanità.
Era la sera del 23 dicembre, in cielo i preparativi per far
bella quella festa che bella lo era già di suo erano quasi terminati e tutti
erano stanchi e pronti per andare a cena. Ma, fra lo sbalordimento generale, Rosso si
presentò a tavola lustro, con la veste perfettamente candida e... con il capo
completamente rasato. Al momento nessuno lo riconobbe perché il suo visetto,
per intero, nessuno l’aveva mai visto ma poi tutti gli angeli, grandi e
piccoli, gli furono attorno per chiedergli conto del cambiamento. Lui, con aria
noncurante, disse:
- Mi ero stufato di tanti capelli e poi così farò molto più
in fretta a prepararmi la mattina.
San Pietro lo guardò, gli andò incontro e, visibilmente
commosso, gli passò un braccio attorno alle piccole spalle attirandolo contro
il suo fianco.
A quel contatto Rosso si sentì…beh, non fosse che in cielo
c’era già avrebbe detto che si sentiva in paradiso ma la sua gioia era persino
qualcosa di più del paradiso. Non gli importava neppure che la manica larga del
santo gli ricoprisse gli occhi e a tratti gli producesse il solletico, quel che
lo infastidiva, in tanta beatitudine, era solo il prurito alla schiena.
- Sta’ a vedere che mi sono beccato una malattia
esantematica proprio a Natale - pensò.
In tre seppero quel che era successo a Rosso e perché si
fosse rasato il capo. Uno era lui, naturalmente, l’altro era il compagno che
aveva combinato un guaio con la colla e il terzo era san Pietro che, non visto,
aveva assistito a tutta la scena.
Il 24 dicembre, all’imbrunire, il Paradiso era perfettamente
ordinato, ogni cosa era pronta per festeggiare la nascita del Bambino Gesù e
tutti fremevano in vista del grande evento. Gli angioletti erano alla loro prima
esperienza e l’eccitazione era palpabile… solo Rosso pareva non partecipare
all’agitazione generale… era serio e a tratti, non visto, si massaggiava la
schiena e scrollava le spalle.
- Che hai? – gli chiese san Pietro cui non sfuggiva nulla
di quanto avveniva in Paradiso.
- Nulla – rispose Rosso temendo che la malattia che avanzava
gli precludesse di partecipare ai festeggiamenti.
- Voltati – disse con voce ferma il santo.
Rosso, imbarazzato e indispettito si voltò, san Pietro
controllò e poi lo fece rigirare.
- Temevi di avere una malattia, vero? –
- Sì, ma mi sento bene e posso… - cominciò a dire Rosso
- Non sei malato – disse san Pietro – ti stanno semplicemente
spuntando le ali e questo sarà il tuo primo Santo Natale da angelo vero.
Lo abbracciò e gli disse:
- Vieni andiamo a dirlo agli altri, quest’anno avremo un
motivo in più per fare festa.
Troppo Natale
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Dino Buzzati (da “Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie”, 1990)
Nel paradiso degli animali l'anima del somarello chiese all'anima del bue:
- Ti ricordi per caso quella notte, tanti anni fa, quando ci siamo trovati in una specie di capanna e là, nella mangiatoia...?
- Lasciami pensare... Ma sì - rispose il bue. - Nella mangiatoia, se ben ricordo, c'era un bambino appena nato.
- Bravo. E da allora sapresti immaginare quanti anni sono passati?
- Eh no, figurati. Con la memoria da bue che mi ritrovo.
- Millenovecentosettanta, esattamente.
- Accidenti!
- E a proposito, lo sai chi era quel bambino?
- Come faccio a saperlo? Era gente di passaggio, se non sbaglio. Certo, era un bellissimo bambino.
L'asinello sussurrò qualche cosa in un orecchio al bue.
- Ma no! - fece costui - Sul serio? Vorrai scherzare spero.
- La verità. Lo giuro. Del resto io l'avevo capito subito...
- Io no - confessò il bue - Si vede che tu sei più intelligente. A me non aveva neppure sfiorato il sospetto. Benché, certo, a vedersi, era un fantolino straordinario.
- Bene, da allora gli uomini ogni anno fanno grande festa per l'anniversario della nascita. Per loro è la giornata più bella. Tu li vedessi. È il tempo della serenità, della dolcezza, del riposo dell'animo, della pace, delle gioie famigliari, del volersi bene. Perfino i manigoldi diventano buoni come agnelli. Lo chiamano Natale. Anzi, mi viene un'idea. Già che siamo in argomento, perché non andiamo a dare un'occhiata?
- Dove?
- Giù sulla terra, no!
- Ci sei già stato?
- Ogni anno, o quasi, faccio una scappata. Ho un lasciapassare speciale. Te lo puoi fare dare anche tu. Dopotutto, qualche piccola benemerenza possiamo vantarla, noi due.
- Per via di aver scaldato il bimbo col fiato?
- Su, vieni, se non vuoi perdere il meglio. Oggi è la Vigilia.
- E il lasciapassare per me?
- Ho un cugino all'ufficio passaporti.
Il lasciapassare fu concesso. Partirono. Lievi lievi, come mammiferi disincarnati. Planarono sulla terra, adocchiarono un lume; vi puntarono sopra. Il lume era una grandissima città. Ed ecco il somarello e il bue aggirarsi per le vie del centro. Trattandosi di spirito, automobili e tram gli passavano attraverso senza danno, e alla loro volta le due bestie passavano attraverso i muri come se fossero fatti d'aria. Così potevano vedere bene tutto quanto.
Era uno spettacolo impressionante, mille lumi, le vetrine, le ghirlande, gli abeti e lo sterminato ingorgo di automobili, e il vertiginoso formicolio della gente che andava e veniva, entrava e usciva, tutti carichi di pacchi e pacchetti, con un'espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti. Il somarello sembrava divertito. Il bue si guardava intorno con spavento.
- Senti, amico: mi avevi detto che mi portavi a vedere il Natale. Ma devi esserti sbagliato. Qui stanno facendo la guerra.
- Ma non vedi come sono tutti contenti?
- Contenti? A me sembrano dei pazzi.
- Perché tu sei un provinciale, caro il mio bue. Tu non sei pratico degli uomini moderni, tutto qui. Per sentirsi felici, hanno bisogno di rovinarsi i nervi.
Per togliersi da quella confusione, il bue, valendosi della sua natura di spirito, fece una svolazzatina e si fermò a curiosare a una finestra del decimo piano. E l'asinello, gentilmente, dietro.
Videro una stanza riccamente ammobiliata e nella stanza, seduta ad un tavolo, una signora molto preoccupata.
Alla sua sinistra, sul tavolo, un cumulo alto mezzo metro di carte e cartoncini colorati, alla sua destra una pila di cartoncini bianchi. Con l'evidente assillo di non perdere un minuto, la signora, sveltissima, prendeva uno dei cartoncini colorati lo esaminava un istante poi consultava grossi volumi, subito scriveva su uno dei cartoncini bianchi, lo infilava in una busta, scriveva qualcosa sulla busta, chiudeva la busta quindi prendeva dal mucchio di destra un altro cartoncino e ricominciava la manovra. Quanto tempo ci vorrà a smaltirlo? La sciagurata ansimava.
- La pagheranno, bene, immagino, - fece il bue - per un lavoro simile.
- Sei ingenuo, amico mio. Questa è una signora ricchissima e della migliore società.
- E allora perché si sta massacrando così?
- Non si massacra. Sta rispondendo ai biglietti di auguri.
- Auguri? E a che cosa servono?
- Niente. Zero. Ma chissà come, gli uomini ne hanno una mania.
Si affacciarono, più in là, a un'altra finestra. Anche qui, gente che, trafelava, scriveva biglietti su biglietti, la fronte imperlata di sudore.
Dovunque le bestie guardassero, ecco uomini e donne fare pacchi, preparare buste, correre al telefono, spostarsi fulmineamente da una stanza all'altra portando spaghi, nastri, carte, pendagli e intanto entravano giovani inservienti con la faccia devastata portando altri pacchi, altri scatole altri fiori altri mucchi di auguri. E tutto era precipitazione ansia fastidio confusione e una terribile fatica. Dappertutto lo stesso spettacolo. Andare e venire, comprare e impaccare spedire e ricevere imballare e sballare chiamare e rispondere e tutti correvano tutti ansimavano con il terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava boccheggiando.
- Mi avevi detto - osservò il bue - che era la festa della serenità, della pace.
- Già - rispose l'asinello. - Una volta infatti era così. Ma, cosa vuoi, da qualche anno, sarà questione della società dei consumi... Li ha morsi una misteriosa tarantola. Ascoltali, ascoltali.
Il bue tese le orecchie.
Per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale. Un brusio che riempiva la città.
- Ma ci credono? - chiese il bue - Lo dicono sul serio? Vogliono davvero tanto bene al prossimo?
L'asinello tacque.
- E se ci ritirassimo un poco in disparte? - suggerì il bovino. - Ho ormai la testa che è un pallone... Sei proprio sicuro che non sono usciti tutti matti?
- No, no. È semplicemente Natale.
- Ce n'è troppo, allora. Ti ricordi quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bel bambino. Era freddo anche lì, eppure c'era una pace, una soddisfazione. Come era diverso.
- E quelle zampogne lontane che si sentivano appena appena.
- E sul tetto, ti ricordi, come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano.
- Uccelli? Testone che non sei altro. Angeli erano.
- E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra la capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle hanno una vita lunga.
- Ho idea di no - disse l'asino - c'è poca aria di stelle, qui. Alzarono il muso a guardare, e infatti non si vedeva niente, sulla città c'era un soffitto di caligine e di smog.
Per le vie del cuore
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Liliana Batà
Nove dicembre 2015 ore otto: al terzo piano del palazzo numero nove, in via San Gregorio Armeno, troviamo la signora Genevieve (si è francese, anzi: un’anziana signora francese) già alzata, mangiata lavata e stirata… lei abita ormai da ben cinquantatre anni, in quella antica grande casa proprio di fronte alla chiesa di santa Patrizia.
Come? Non conoscete questa chiesa? Allora se e quando verrete da queste parti non trascurate di visitarla : è semplicemente un piccolo gioiello d’arte dove riposano le spoglie della santa compatrona di Napoli… non sapete chi è? E’ santa Patrizia che come san Gennaro e anche meglio di san Gennaro, scioglie il suo sangue ogni martedì di tutte le cinquantadue settimane dell’anno! E forse pochi lo sanno! Ma non ci meravigliamo : anche fra i santi, i maschi hanno la supremazia sulle femmine!! (un giorno conterò quanti santi uomini e quante sante donne ci sono nel calendario… e credo che organizzerò una manifestazione di protesta nel prevedibile caso che gli uomini siano in stragrande insopportabile maggioranza! Pure mParaviso se vonno accaparrà ‘e meglie poste!)
Cosa sta facendo l’anziana Genevieve che vive sola ma è nonna di sei nipoti e bisnonna di due? La vediamo quasi dentro le due ante centrali spalancate dell’armadio : ha deciso di approntare il presepe nell’appropinquarsi del Natale, quindi sta scartando i pastori per scrutarne le condizioni. Quest’anno decisamente vuole ridurre al minimo la rappresentazione sacra, quindi pensa alla natività con Maria, Giuseppe il Bambinello e poi… cerca i re magi, a questi proprio non può rinunciare. Genevieve scarta, cerca, scruta ed infine li trova. Quale immensa amarezza nel ritrovarli e nel constatare che ormai sono impresentabili : scoloriti, scheggiati, qualcuno addirittura gravemente ferito… no pardon volevo dire rotto proprio laddove qualche anno fa l’aveva riparato con la colla “uhuh” !
“Oh povero il mio Melchiorre…” esclama con la sua adorabile erre francese che l’ è rimasta nonostante il marito napoletano buonanima e gli oltre sessant’anni di permanenza partenopea!
“ … come ti sei ridotto… quanto vi vorrei nuovi e belli miei cari magi, con i mantelli di seta ricamati con fili d’oro, i turbanti adorni di perline e pietre luccicanti…”
Genevieve pur essendo sola, non disdegna di parlare ad alta voce e quindi continua malinconicamente:
“…ma credo che fra poco uscirò… dovrò comprarne di nuovi…”
Ed infatti di lì a poco la vediamo nella folla di via san Gregorio Armeno a cercare fra i tanti magi delle tante botteghe proprio sotto casa sua.
Ma la rivediamo tornare a casa a mani vuote: quelli più belli che le piacevano sono costosi , non può comprarli e continua a pensarli per tutto il tempo della giornata;
quella notte ha sogni agitati fin quando viene svegliata da un ritmico lento scalpiccio proveniente dalla strada, nonostante i balconi chiusi. E poi un voce inaspettata soave e carezzevole le parla per incitarla :
”Scendi… scendi…”
Genevieve assonnata si ritrova sotto al suo grande palazzo spalancato e non crede ai suoi occhi: tre bianchi cammelli uno dietro l’altro procedono calmi e solenni.
“ I magi!?- Esclama incredula la dolce Genevieve- sono proprio loro, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre… che belli, che abiti splendenti, che turbanti sfarzosi…oh sì! proprio come li ho sempre immaginati…anzi la loro bellezza supera la mia immaginazione! oh Gaspare che porti oro al piccolo Re… oh… Melchiorre dalla barba bianca col sorriso dell’uomo buono, un po’ di rughe ti solcano la fronte e gli occhi scuri che sembrano brillare in questa notte chiara… e poi ci sei tu, Baldassarre dalla pelle nera e le labbra carnose…vi ho cercato per un giorno intero ed ora siete qui in carne ed ossa! Vedervi è un dono prezioso ed inaspettato, voi saggi re dell’oriente, mostrarvi a me insignificante creatura, in questo viaggio in cerca di Gesù…”
Provenienti dalla via San Biagio dei librai ora svoltando a destra, i cammelli lentamente si dirigono verso la piazza san Gaetano, da dove scendono rotolando ovattate alcune bianche silenziose nuvolette, sfiorando appena il selciato…
“Sali- le dice Gaspare rallentando il cammino- vieni con noi…”
“Andiamo a Betlemme?” chiede Genevieve emozionata e confusa
“Siamo già a Betlemme”
“Ma…”
“Perché Betlemme è nel tuo cuore…”
L’aria è ora attraversata da un canto d’amore: è una voce femminile che canta, e le fa da sfondo un coro di tante e tante voci…
“Chi canta? “ chiede la nostra Genevieve sempre più sbalordita ed emozionata
“E’ Maria … canta la ninna nanna al suo bambino” risponde Baldassarre, il magio nero :
La voce canta:
…e nonna nonna, nunnarella
pure li pecurelle cu li pastori
addunucchiate stanne vìate, cu te
ca sì’ l’Ammore e pure Ddio!
Genevieve ascolta e dice stupita:
“Come è possibile ch’io oda la ninna nanna della Madonna che sta cantando a Betlemme?”
“Perché l’ascolti col cuore” le risponde Melchiorre
”che strano… la ninna nanna è napoletana…”
“Certo perché siamo a Napoli e in questo momento tutti la sentono cantare, a patto che l’abbiano nel cuore… non senti? Tutta la via è attraversata dal canto di Maria… ora le rispondono i pastori…”
Canto dei pastori:
‘sta mammarella cantann’ ‘o cunnulea
e pe’ lu suonne…nu poco canta
e n’atu ppoco scapuzzéa…
Con un gesto Gaspare l’aiuta a salire sul suo cammello e Genevieve emozionata come una bambina si lascia aiutare. Insieme salgono sulle nuvole verso il cielo nascosto, azzurro e ingioiellato di stelle e pianeti felici. Difficile narrare la gioia dell’anziana signora, per lei è un viaggio inaspettato e magico e tutto le comunica una gioia nuova, mai vissuta prima…il suo volto ora è giovane e bello così come la sua anima d’eterna fanciulla…le vie del Cielo sembrano accogliere la piccola carovana facendo largo fra miliardi di luci palpitanti…
(Oh ma state tranquilli neh! Mai mi sarei permessa di terminare malinconicamente questo racconto: si potrebbe infatti temere che la nostra deliziosa signora sia giunta in paradiso… Nooo, almeno non ancora! Non avrei potuto dare questo dispiacere alla mia amica Rina che ama solo le storie che finiscono bene! Infatti… )
…la dolce Genevieve la ritroviamo la mattina seguente nel suo letto, sveglia che si stiracchia sorridendo strafelice! “Che incantevole sogno!-sussurra- i miei magi mi han trasportata a passeggio fra le stelle, ho vissuto nel mio cuore il Natale a Betlemme udendo i canti dei pastori e di Maria madre di Dio. Oggi è proprio un bel giorno, voglio subito allestire il presepe più bello del mondo che ho tutto qui!” E con la piccola mano destra si batte sul cuore.
Napoli, 9 dicembre 20015
Homo homini lupus
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Speranza
Erano le sette del mattino di una giornata che si annunciava di caldo afoso.
Aveva guidato con la massima attenzione. Aveva rinunciato a concedersi il sollievo dell’aria condizionata. Non voleva esporre il suo fisico alla inevitabile sofferenza prodotta dalla enorme differenza di temperatura che si sarebbe creata nell'abitacolo e quella che avrebbe trovata e che avrebbe dovuta subire per ore nella località, in quel dannato posto, dove era diretta.
Nell'ampio spiazzo adibito a parcheggio era in sosta già un notevole numero di macchine.
La fila dei visitatori-familiari- in attesa sotto il sole ormai cocente, era già lunga circa venti metri. Questo significava che avrebbe trovato circa sessanta persone giunte prima di lei, già in fila, in attesa.
I vetri blindati dei due sportelli dietro cui sarebbero comparsi gli addetti al rilascio dei pass erano ancora chiusi. Il rilascio del pass avveniva solo dopo accuratissimo esame della documentazione necessaria e richiesta, comprovante il grado di parentela.
Le operazioni sarebbero iniziate, come sempre, con ritardo. Si sarebbe, pertanto, protratto più a lungo il calvario dell’attesa per ottenere il permesso di essere ammessi al colloquio. Mediamente, per le ragioni esposte, l’attesa durava da un’ora e mezza alle due ore.
E, frattanto, il sole avrebbe continuato a lanciare i suoi cocenti strali su quella massa di persone e su quanti vi si sarebbero poi aggiunti. L’afa avrebbe appesantito l’aria.
Ogni possibile difesa contro quella tortura era impossibile.
Elena parcheggiò la macchina. Dopo alcune ore quella scatola di latta sarebbe diventata un forno caldissimo per essere stata esposta a lungo ai raggi del sole. Non era prevista, non esisteva alcuna copertura a protezione nell'ampio spazio adibito a parcheggio.
Chiuse la macchina. Si accertò di aver inserito tutti gli accorgimenti atti ad evitarne un eventuale furto. Poi si affrettò a raggiungere la zona occupata dai visitatori in attesa e si mise in fila.
Ottenne il permesso di ammissione al colloquio esattamente dopo novantasette minuti.
Era in uno stato di prostrazione totale.
E non era ancora finita.
L’ottenimento del pass non consentiva l’immediato, automatico ingresso. Non era la sola formalità da adempiere perché fosse consentita la entrata per raggiungere la sala colloqui con i detenuti. Occorreva attendere che da un altoparlante che emetteva suoni tanto rauchi da rendere incomprensibile ciò che annunciava, fosse chiamato il nome del detenuto. Espletata questa ulteriore ed estenuante formalità si veniva introdotti in un primo locale da dove poi, una volta completato il numero degli ammessi,i visitatori sarebbero stati indirizzati verso altra postazione di controllo per essere sottoposti ad accuratissima perquisizione.
Dopo l’attraversamento di un percorso obbligato, sempre sotto il sole e scortati dalla
Polizia penitenziaria, i visitatori raggiungevano la sala destinata a sede dei colloqui.
La sala era una specie di cunicolo largo non più di cinque metri. Diviso in due parti di pari larghezza da un lungo tavolo di marmo largo un metro. Su ciascuno dei lati era stato previsto un unico sedile in muratura lungo quanto il tavolo che fungeva da divisorio. In uno dei due settori sarebbero stati collocati i detenuti, di fronte gli ammessi ai colloqui.
I visitatori raggiungevano il lungo sedile e vi prendevano posto restando a strettissimo contatto di gomiti, ammassati l’uno all'altro.
Poi si attendeva l’arrivo dei detenuti.
Quell'intervallo, quei minuti che dilatavano ancora di più l’interminabile tempo dell’attesa, rendeva ancora più avvilente, drammatica quella scena. Nessuno parlava. Forse, col silenzio, i presenti tentavano di esorcizzare la pena tremenda che li attanagliava.
Elena, improvvisamente, si sorprese a fissare lo sguardo sull'incedere sul tavolaccio di un bambino che in precedenza aveva visto insieme ad una donna anch'ella in attesa, che, salito sul ripiano del tavolaccio che fungeva da divisorio, impettito ed orgoglioso della sua bravata, lo percorreva con fare spavaldo e divertito. Con quel suo incedere tra il divertito ed il traballante, rendeva irreale ancora di più quel posto. Era la vita che, rappresentata in quel luogo maledetto da quell'innocente, pretendeva visibilità ed il diritto, nonostante tutto. a prevalere. Forte risultava il contrasto tra l’atrocità di un sistema che sembra avere come unica finalità quella di distruggere ciò che ancora poteva essere salvato di un essere umano, e il trionfo della voglia di vivere sceneggiata dal l’innocente svago individuato da quella piccola creatura.
Era prevista e consentita per ogni detenuto la presenza di tre congiunti. I detenuti ammessi erano dodici. In quella specie di sala colloqui vi sarebbero rimasti, per un’ora, quarantotto persone, i dodici detenuti da un lato ed i 36 congiunti dall'altra. Per potersi parlare e per poter superare il continuo vocio, le grida dei bambini, la quantità di suoni delle parole che quarantotto persone, in contemporanea, volevano, avevano necessità di scambiarsi ci si doveva alzare e accostarsi quanto più possibile.
Era un tormento. Sembrava di essere nel peggiore dei cerchi dell’inferno dantesco.
Finalmente, senza preavviso, si apriva la piccola porta da cui sarebbero entrati i detenuti.
In silenzio, emaciati, inizialmente timorosi e guardinghi esploravano il luogo in cerca del volto amico dei parenti in attesa. Solo quando li avevano individuati il loro volto iniziava a rilassarsi ed i loro lineamenti riprendevano l’aspetto umano, abbandonando l’atteggiamento di animale ferito e assoggettato. Avveniva, allora, in contemporanea, una esplosione liberatoria che spingeva gli uni nelle braccia degli altri alla ricerca spasmodica di un ritrovato, seppur momentaneo, contatto reale . Contatto ostacolato e reso quanto mai faticoso dal tavolo che divideva le parti.
Per diversi minuti quel luogo diventava una bolgia, reso tale da un improvviso,violento incontenibile esplodere di affettività mortificate, represse.
Elena, pur fra tante difficoltà, intimorita e quasi atterrita da tanta feroce volontà di ognuno dei presenti di sopravanzare con la propria la voce degli altri, riuscì a rimanere stretta per alcuni minuti al collo del padre, sforzandosi inutilmente di frenare i singhiozzi che le squassavano il petto e mischiando le sue alle lacrime che copiose scendevano dagli occhi del genitore.
Gli riferì del colloquio avuto dal loro legale con il Giudice di Sorveglianza che aveva fatto balenare la speranza di poter concedere, in attesa del processo, la misura alternativa degli arresti domiciliari.
Quando ritornò alla macchina era distrutta. Le ci volle del tempo per decidersi ad abbandonare quel luogo maledetto che, seppure le aveva dato delle ore veramente tremende, era il posto dove era custodito quanto di più caro le fosse rimasto.
Prima di partire la colpì la figura di un uomo vecchio, emaciato, con capelli e barba incolti che lentamente camminava fra la gente in attesa innalzando un cartello su cui campeggiava la scritta :HOMO HOMINI LUPUS.
Ne rimase fortemente impressionata.
Una volta a casa rimase distesa, ad occhi chiusi, al buio per il tempo necessario a farsi una ragione di quanto stava accadendo e per liberarsi di tutta quanta la sofferenza che quella vicenda e l’esperienza di quella mattina le avevano procurato.
Non sapeva convincersi, non riusciva a trovare alcuna ragione che potesse aiutarla a capire, a sopportare che una società che si ritiene civile, possa distruggere, per sue manchevolezze, una vita umana. Non si può, non si dovrebbe infliggere tanta sofferenza a chi ancora non è stato giudicato colpevole e che, come sarebbe accaduto nel caso di suo padre, un giusto processo avrebbe restituito alla società ed al vivere civile fra i suoi affetti.
Alcuni mesi dopo.
Era il 23 dicembre. Quel giorno le toccava il turno pomeridiano. Lavorava alla società dei telefoni.
Era addetta alla ricezione e dettatura telegrammi.
Alle 18 era puntualmente al suo posto di lavoro. Aveva già risposto a diverse richieste.
Non era stanca. Il lavoro la restituiva alla sua dimensione di persona comune, umana e le permetteva di godere la porzione di serenità che aveva saputo ritagliarsi e nella quale riusciva a rifugiarsi anche in quel periodo di tempo per lei tristissimo.
Il telefono riprese a suonare. Rispose con la sua bella voce e pronunciando la formula di rito: Ufficio dettatura telegrammi, buona sera. Sono Elena. Mi dica.
Una voce sottile, chiaramente di una donna di età avanzata le rispose: Buonasera signorina. Vorrei dettare un telegramma.
Signora, mi dia il numero del suo telefono. Provvederò a richiamarla. Dopo qualche istante compose il numero che le era stato dato e disse Pronto signora. Adesso può dettare, mi dica.
La voce dall'altro capo dettò.
Caro Marcello, adorato figlio mio. Ti scrivo ancora adesso perché tu possa sentire in questi giorni di festa ancor più tutto l’affetto di tua madre con la speranza che possa aiutarti a trovare sollievo in queste tremende ore di un immeritato calvario. Prego con tutto il cuore Colui che invierà fra noi Suo Figlio per la salvezza dell’umanità di concederti la forza di superare e vincere queste atrocità e che presto possa essere restituito all'affetto dei tuoi cari. Ripensa intensamente a come, in queste occasioni, eravamo soliti trascorrere le feste uniti, circondati dall'affetto di tutti. Sii forte; pensa che io sarò con te più di quanto potrei esserlo materialmente. Ti stringo forte ..forte sperando di poterti vedere più presto che sia possibile.
Buon Natale, figlio mio.
Mentre sotto dettatura scriveva il messaggio copiose lacrime rigavano il volto di Elena.
Il messaggio era indirizzato ad un uomo detenuto nello stesso carcere in cui lei, mesi prima, aveva avuto il colloquio con suo padre.
Idealmente, mentre si asciugava il viso, abbracciò forte la vecchia signora e mentalmente le augurò: Buon Natale.
Mentre riponeva il telefono ricordò la figura dell’uomo col cartello che recava la scritta: Homo homini lupus.
La vecchina del presepio
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Gianni Rodari
La vecchina abitava da anni (duecento? trecento?) sulla montagna più alta del presepio. Il presepio era quello che sta a Roma, presso la chiesa dei Santi Cosma e Damiano, tra le rovine dei Fori Imperiali ed è uno dei più belli del mondo, con montagne, burroni, castelli, villaggi, palazzi, ponti, ovili, osterie, negozi, e migliaia di finestre aperte e dentro si vede la gente vivere. Ma la gente vive per lo più nelle strade, come a Napoli: centinaia e centinaia di figurine che vivono, comprano e vendono pesci, prosciutti, fichi secchi, castagne, caciotte. E scale, scalette, scalinatelle: tutto un labirinto festoso su cui scendono gli angeli a grappoli dal soffitto, e un lungo corteo di mori, cammelli, cavalli accompagna i Re Magi, e bambini accorrono incuriositi, ragazze ballano la tarantella per far onore agli ospiti, si mesce il vino, si drizzano tende ricche come regge.
Sulla collina più alta, nella casa più povera del villaggio, abitava la vecchina, e anche lei, la notte di Natale, si annodò in testa il fazzoletto più bello, preparò un fagottello di pomodori seccati al sole da portare in dono, e si incamminò a piccoli vecchi passi giù per un sentiero ripido, rotto ogni tanto da un mazzetto di gradini.
Piano, piano, andava più piano di tutti. Ben presto la superò un gruppo di giovani e in mezzo a loro ce n’era uno che suonava la fisarmonica.
-Coraggio, nonnetta- la salutarono.
-Non è il coraggio che manca,- rispose, fermandosi a guardarli. –Andate, andate, belli di mamma vostra.-
Ma quelli erano già arrivati in fondo alla valle, come un’allegra valanga. Un vecchio che fumava la pipa sotto il portico di casa la chiamò:
-Ce la farete ancora? E’ lunga la strada.-
-Ce la farò, ce la farò. Sarò l’ultima, ma alla mia età non è vergogna.-
La vecchina sospirò ma seguitò a camminare. Non aveva tempo da perdere. E giù, e giù per sentieri e scale, e su, e su per scale e sentieri. Doveva passare ancora due montagne prima di giungere alla pianura. Poi bisognava attraversare la pianura e ricominciare a salire per un bel tratto, dentro e fuori dai paesi aggrappati alla strada.
Ora c’era sempre più gente, per i sentieri, e dalle case ne usciva dell’altra. Donne dai balconi gridavano: -Aspettatemi!-
Dalle finestre aperte la vita delle case si rovesciava fuori con luci, suoni e colori. La vecchina vide una ragazza che toglieva dal baule uno scialle prezioso.
-Ecco,- mormorò con un pochino d’invidia, -lo scialle della dote. Io non porto che questi pomodori seccati. Com’è triste esser poveri, qualche volta, quando non si possono fare bei regali.-
Passò accanto a una casupola delle più meschine. Fuori dell’uscio una donna lavava dei panni in un mastello.
-Che fate?- borbottò la vecchina. –Il bucato la notte di Natale?-
La donna alzò gli occhi dal suo lavoro. Erano rossi e gonfi.
-Mio marito è malato, bisogna che guadagni io qualcosa.-
-Non sentite che i vostri bambini piangono?-
-Li sento sì. Vogliono andare con gli altri alla grotta. Ma io non ho tempo di vestirli, ecco perché piangono.-
-Siete proprio come un pulcino nella stoppa, non sapete cavarvela,- borbottò la vecchina.
Entrò in casa, diede un’occhiata al malato e gli cambiò l’acqua nella caraffa, poi vestì i bambini, con gesti ruvidi e precisi, senza cessare di rimproverarli meccanicamente. Quelli non badavano ai rimproveri: sentivano le sue mani buone e svelte, si lasciarono vestire in fretta, si lasciarono strofinare la faccia con un asciugamano bagnato, ma quando furono pronti schizzarono via con uno strido acuto, come rondini.
-Ti fanno perdere tempo, ma mica ti dicono grazie,- borbottò la vecchina riprendendo il cammino. Ora poi cominciava a sentire appetito. Avrebbe chiesto volentieri qualcosa alla pastora che filava, con un gatto in grembo; alle donne che recavano in equilibrio sul capo grandi ceste colme di verdura, di ciambelle fatte in casa, di frutti profumati. Ma era troppo orgogliosa per farlo. Per fortuna un contadino che zappava e la vide ansare, già un poco vacillante, spiccò un arancio da un ramo a glielo offrì.
-Bravo,- gli disse la vecchina, -pare che vi abbiano messo qui apposta per questo. Avevo giusto sete.-
Disse “sete”, non “fame”, perché non le piaceva far sapere agli altri le sue cose, e non voleva essere compatita.
-Ma vi pare la notte adatta per starvene a zappettare?- Domandò poi. –Voi che avete le gambe buone…-
.Avrò presto finito. Coglierò un cesto di arance e mi avvierò. Volete scommettere che vi raggiungo prima del paese?-
In paese la bottega del fornaio era aperta, la bocca del forno rossa di fuoco, e il pane fresco profumava la notte.
La vecchina guardò da un’altra parte.
Prigioniera del suo seggiolone, una pupetta grassa, rosea e lacrimosa strillava a più non posso, tuffando una mano rabbiosa nel piatto di spaghetti che le stava davanti.
-E tu che hai?- domandò la vecchina. –Non ti piace la pappa? Su, su, che è buona.-
Ma la bambina non si chetava, e non voleva mangiare. Finalmente la vecchina scoprì che le era caduta per terra una bambola di stracci: gliela raccolse e la bambina sorrise.
-Su,- disse la vecchina, arrotolando uno spaghetto intorno alla forchetta, -mangia. Ah, am. Quant’è buono… e la tua mamma? Le tue sorelle? Tutte a vedere il corteo dei Magi, scommetto. E te, ti lasciano qui sola come un’orfanella. Mangia con la nonnina, su. Ecco, brava, brava.-
La bambina, mangiando, farfugliava il suo linguaggio di sillabe sperdute, di mugolii ed esclamazioni senza significato: -Baaa… beee… gniooo… Uhhh!-
La vecchina cominciò anche a parlare a quel modo, e intanto i minuti passavano, e passava la gente, sorridendo. Passò uno zampognaro, seguito da un codazzo di ragazzi. Passò quel contadino di prima, col suo cestello di arance. Solo quando il piatto fu vuoto la vecchina si riscosse, si guardò intorno, si rialzò.
-Piccerella mia, bisogna che me ne vada, altrimenti non arriverò in tempo. Vedi laggiù quel chiarore? E’ la cometa che sta per spuntare.-
-Biaooo… booo,- rispose la pupa.
_Stai buona, sì? Presto tornerà la tua mamma.-
Ora la folla era un fiume variopinto e chiassoso, risuonava di grida, di pifferi, di nacchere, e la vecchina era quasi al centro del presepio, e la luce della stella saliva in cielo come un incendio di buon augurio, e per un po’ la vecchina fu presa a braccetto da un gruppo di ragazze che cantavano e camminavano a passo di danza, e questo le fece mancare il respiro. Dovette proprio sedersi un momento a riposare, sulla panca di un’osteria campestre, ma non accettò il bicchier di vino che l’oste le offriva, per paura che le mettesse il capogiro, bevve solo un po’ d’acqua.
La gente passava. Era passata. Appena qualche ritardatario allungava il passo. Ecco, più nessuno.
-Arriverò ultima anche quest’anno,- sospirò la vecchina, -e di lontano vedrò ben poco, si sa. Le mie povere gambe mi fanno male come se me le avessero battute.-
Si fece coraggio, a passi sempre più brevi e incerti, e ogni tre passi doveva fermarsi un attimo perché il cuore si calmasse. I rumori e le luci della gran festa erano come una nuvola che si allontana. Le pause di silenzio erano sempre più lunghe e distese. In uno di quei silenzi udì (di nuovo, ancora!) il pianto di un bambino.
-Povero piccolo,- mormorò la vecchina, -in una notte come questa, davvero non ci dovrebbe essere al mondo un solo bambino che piange. No, no: in tutto il mondo non dovrebbe piangere nessuno. Ma tu dove sei, piccolo povero fantolino? Dove sei, bello di mamma tua?-
Il pianto veniva da una capanna posta a pochi metri dalla strada. C’era una siepe, intorno, ma così cadente che la vecchina non abbe difficoltà ad attraversarla.
La capanna era tutta buia, il pianto veniva di là.
-Eccomi, eccomi,- sussurrava la vecchina -eccomi, sono qui.-
Entrò nella capanna e proprio in quel momento, per fortuna, la cometa superò l’ultima montagna e illuminò tutto il cielo e, al chiarore che penetrava dalla porta, la vecchina vide il pagliericcio, la giovane donna che vi stava stesa con gli occhi chiusi, come svenuta, e il piccolo tutto nudo che le giaceva accanto e piangeva.
-Ma tu hai freddo, ecco che cos’hai,- esclamò la vecchina con la sua voce più dolce.
E sempre parlando tra sé la vecchina si muoveva per la capanna, trovava le povere fasce preparate per il neonato e lo avvolgeva.
A un tratto “grazie” sentì dire con un filo di respiro. Si voltò e vide che la giovane madre era tornata in sé. Era troppo debole per muoversi e per parlare, me i suoi occhi riconoscenti dicevano tante cose.
-Brava, brava,- disse la vecchina. E intanto accendeva il fuoco, metteva un po’ di acqua a bollire, e il fuoco rischiarava la capanna come una piccola, capricciosa cometa che giocava con le ombre.
E poi venne l’alba, piano piano, prima grigia, poi bianca e dorata. La madre e il bambino dormivano. La vecchina dormiva su una sedia, col mento sulla mano. E quando si svegliò era tornato il padre, e la notte di Natale era passata, e la vecchina non era arrivata fino alla grotta, perché tutti quei bambini le avevano fatto perdere tempo, ma era contenta e serena, anche se non aveva visto i Re Magi, gli angeli e lontano lontano, sopra un mare di teste, la grotta.
Così lasciò quei pomodori seccati sul tavolo e si mise sulla via del ritorno, passo dopo l’altro, nel silenzio del grande presepio addormentato, su su, in cima ai sentieri, ai tetti, alle scale, alle scalinatelle, fino a casa sua, che era la più vicina alle stelle.
Esistono, gli angeli
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Sari - 2014
Esistono gli
angeli? Esistono, sì, ma se poco so di quelli celesti, sono quasi
certa di averne incontrati di
terreni, persone come me, come te, ma
che hanno le ali
nel cuore... quel tipo di
ali che si possono perdere e
riguadagnare molte volte nella vita.
Anche tu che
leggi potresti essere un angelo, oppure lo sei stato o lo sarai domani.
Gli angeli
terreni sono persone generose e
coraggiose, dallo sguardo acuto, che sanno vedere nel prossimo un fratello,
chiunque sia, senza lasciarsi condizionare
dal colore della pelle, dall'abito che indossa o dal
modo diverso di concepire la vita.
Erri De Luca
dice che gli angeli non sono distinguibili dagli altri e che ti accorgi di loro
solo quando se ne sono andati, che li
riconosci dai doni che ti hanno lasciato.
Io la penso come lui e forse anche Manu lo penserebbe, se conoscesse Erri
De Luca.
Chi è Manù? E'
uno dei protagonisti della storia che
sto per raccontare, una storia di
angeli, di quelli che abitano fra noi.
Manu è nato
in una famiglia senza forza e speranza,
da persone deboli - ognuna a modo suo - e poco pronte ad accoglierlo, a fargli posto, così Manu fu sempre di troppo
nella sua casa e quel peso lo
sentì come colpa. Fu dapprima un bambino chiuso, poi un adolescente pieno di
paure, poi un giovane insicuro a causa di quell'amore che rende robusta la
spina dorsale e che a lui era mancato. Aveva
vent’anni e solo nei sogni incontrava qualcuno
che gli voleva bene e gli diceva chi era e perchè era venuto al mondo.
Manu non fu
quindi pronto ad affrontare la vita adulta e si sentì estraneo
in qualsiasi ambiente, come fosse
atterrato per sbaglio in un pianeta
dove c'era un unico diverso e quel diverso era lui.
Man mano che i
giorni e gli anni passavano, una polvere
grigia pareva velargli lo sguardo sul mondo e copriva pian
piano ogni cosa rendendola priva di attrattiva.
Cos'era la vita, per chi e cosa valeva vivere?
Il Natale era appena
trascorso quando un evento banale
aumentò a dismisura la polvere grigia,
la vista gli si offuscò e
sbandò, non potè guidare l'auto nè la
sua vita
e frenò. Si fermò e, pur sentendosi stordito, si
guardò intorno. Attorno a sé vide alti e lunghi palazzi addossati gli uni agli altri, così
uniti da parergli abbracciati.. questo gli
procurò nuovo sconforto perché aumentò
la sua solitudine.
Si sentì
stanco, tanto stanco, si allungò fra i
sedili dell'auto, troppo piccola per le sue lunghe gambe, e si addormentò.
Dall'oggi al
domani Manu diventò un senzatetto che sopravviveva
con quel poco cibo che gli scarsi denari gli consentivano e quel che il padre, che
l'aveva cercato e trovato, gli portava.
La sera Manu
stentava ad addormentarsi e steso fra i sedili guardava il tettuccio dell'auto che era
diventato il suo cielo senza stelle e pensava che quel suo rifugio gli era insieme nido e bara.
A sera tardi
sentiva lo schiamazzare sommesso dei giovani che rientravano dopo il divertimento
serale e avrebbe voluto essere con loro,
uno di loro, con genitori che li aspettavano e un posto da chiamare "camera mia". Lui non aveva avuto nè una cosa nè l'altra.
Gli pareva di
non nutrire speranza alcuna per la sua
vita, che il mondo e le cose gli fossero ostili e d'essere ormai insensibile a tutto, abbandonato dal cielo e
dagli uomini.
Manu si sbagliava:
era capitato nel posto giusto e la
sua vita poteva cambiare perchè lì, dove s’era
fermata, abitavano due angeli.
Si chiamavano
G & G ed il primo G era un Angelo-mamma, con cuore di mamma, pensieri di mamma, cure
di mamma. Il secondo G era un
Angelo-papà con forza di padre, sicurezza di padre, e ispirava
fiducia di padre.
Quando Mamma G
si accorse di Manu e vide, passando vicino l'auto, quelle lunghe gambe rattrappite nel poco spazio offerto dall'abitacolo,
pensò fosse un drogato, un disadattato e
gli fece pena e anche rabbia... quanti giovani si perdevano in tal
modo... ma non rimase indifferente e ogni
giorno, dai vetri della finestra di casa sua, sorvegliò quel tettuccio d''auto sotto il quale un giovane
stava patendo chissà quali tormenti. Non
sapeva cosa fare e si torceva le mani per l'impotenza.
Giorno dopo
giorno la sua inquietudine crebbe e ne parlò con Papà G che la condivise, mischiarono i pensieri e decisero che quel
ragazzo non poteva essere abbandonato.
Il
mattino dopo mamma G bussava ai vetri
dell'auto di Manu e gli chiedeva chi fosse,
se avesse fame o sete. Gli tese una mano a cui lui non diede peso.
Qualche giorno
dopo, fra un panino, una bibita e tanti materni sorrisi, gli chiese della sua
famiglia... e perchè... e come mai si fosse arreso…
Manu
rispondeva brevemente, accettava grato il cibo che gli veniva offerto, apprezzava
il dono di un cuscino, la possibilità di lavarsi ma non
trovava la forza per cambiare la
sua vita e si lasciava andare alla deriva.
Ogni tanto suo padre gli faceva visita
ma non sapeva
convincerlo a tornare a casa e, seppure con dolore, si arrendeva.
I due G &
G erano angeli, sì, ma avevano forza e determinazione
"diabolica" e non s'arresero
neppure per un attimo davanti ai rifiuti di Manu. Mamma G alternò le cure a sgridate terapeutiche e
bussò a tutte le porte per cercare quell'aiuto che lei, lo capiva bene, non sapeva
dare al ragazzo. In cambio ricevette
solo parole vaghe o rifiuti.
Mamma G
fremeva e anche se il Natale era ormai passato da tempo,
il suo peregrinare
da un ufficio
all'altro, le faceva pensare al povero Giuseppe
raccontato da Gozzano e ai rifiuti
davanti alla richiesta di un
alloggio per la sua Maria: "Avete
un po' di
posto, o voi
del Caval Grigio?" Anche a lei scoccavano inutilmente le ore senza trovare un consolante
"sì".
Ma
qualcosa si stava muovendo perchè
davanti all'ostinazione degli angeli, al
loro insistere a credersi nel giusto,
che possono fare i comuni e immobili
mortali?
Ogni giorno
Manu dimagriva e più s'indeboliva e meno lo infastidivano i commenti, gli insulti,
il disprezzo dei passanti. A volte provava un po' di paura e temeva i balordi
notturni che aveva incontrato più volte ma rimaneva immobile, quasi che le
paure notturne fossero una versione di quelle diurne dove si muovevano i
giusti, i benpensanti, i crudeli con, e senza colpa.
Spronati dalla
banda G & G, Manu fu avvicinato dagli assistenti alle persone di strada e da altre strutture sociali…
ma lui no, non si fidava di nessuno, o
non aveva la forza per farlo, e poi la sua casa era ormai l'auto
che ora profumava di famiglia,
protetto e scaldato dalle coperte e
dall'attenzione che Mamma e Papà G gli garantivano.
Sarebbe stato
quasi contento di quella sistemazione se
Mamma G gli avesse dato tregua... ma lei alternava alle premure i rimproveri, lo punzecchiava e non lo lasciava in
pace.
Neppure gli
angeli G & G erano in pace nel vedere una vita giovane gettata via a quel modo e pativano sempre
più. Non potendo stare con le mani in
mano, fecero un ultimo tentativo
rivolgendosi ai servizi sociali del paese
natio del ragazzo a cui raccontarono di quel lungo anno trascorso ad occuparsi di Manu e della preoccupazione
per l'inverno in arrivo.
Dietro quella
scrivania, quella volta, non sedeva un
rigido funzionario ma una donna-angelo-comunale che ascoltò e si
commosse davanti a tanta dedizione.
Prenotò gli aiuti
necessari, il
giusto sostegno e tutti insieme tennero le dita incrociate aspettando quel necessario
sì di Manu a cui era legato tutto il progetto.
Era pronto
Manu, che da tempo s'era arreso, a dire quel sì?
Il mondo che
vedeva attraverso una coltre gli limitava la visuale e non s’era quasi
accorto che ogni volta che Mamma e Papà
G gli parlavano, lo spronavano, lui
intravvedeva uno squarcio in quel grigiore e giorno dopo giorno quel buco si allargava facendogli vedere una
piccola luce.
Non lo sapeva ancora, ma tutto quell'amore,
quello sguardo perenne che dall'alto gli
offrivano i due Angeli, lo avevano
cambiato. Preso per mano dalla banda G & G
disse sì, si lasciò accompagnare agli incontri, si lasciò fare, si fidò
nuovamente di qualcuno e si avviò per una strada che lo avrebbe portato a trovare un suo posto nel mondo.
Rinvigorito da
quell'affetto, quelle premure che per la
prima volta sperimentava, osò sperare, guardò
davanti a sè e vide una strada.
Si sentì partorito non da donna ma
da Madre.
E sorrise.
Quest'anno,
gli angeli G & G hanno rispettosamente anticipato il Santo Natale e, chiedendone scusa al Cielo, hanno gridato: è nato! I primi vagiti del nuovo Manu li
sentono come
regalo natalizio e se li tengono stretti in cuore sperando che quella creatura,
che non abbandoneranno, cresca sana e
robusta.
Sono sollevati
e contenti, i due angeli terreni.
E contento è
anche il piccolo angelo, di
quelli che le ali le hanno davvero, che,
accucciato accanto alla canna fumaria del grande complesso residenziale da cui
vegliava, sbadiglia, stiracchia le ali
un po' intorpidite e sospira.
S'assopisce sorridendo e pensando che domani potrà tornare a casa.
Troverà un posticino
in prima fila accanto alla divina
capanna?
Gli angeli G & G sono miei amici e questa storia, che nelle parti sconosciute s'è avvantaggiata dell'immaginazione, è vera.
L'inconfessabile segreto del fornaio
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Patrizio Righero
In un piccolo villaggio di campagna, di quelli che macchiano di bianco e di allegria il verde dei campi, da anni non c’era nessun fornaio. Finalmente, un giorno – e fu giorno di grande festa! - ne arrivarono addirittura due. Entrambi aprirono una piccola bottega e iniziarono a vendere dolci e pagnotte. Uno di loro era grande e grosso, dal carattere gioviale e ben presto divenne amico di tutti. L’altro, invece, era piccolo ed esile, dal carattere ombroso e piuttosto scorbutico. Nessuno amava stare in sua compagnia, ma il pane del suo forno era davvero eccellente, croccante, cotto al punto giusto e profumato da far venire fame a qualsiasi ora del giorno e della notte. E così pure i suoi dolci che andavano a ruba soprattutto tra i bambini. I prodotti del fornaio simpatico e gioviale, al contrario, erano piuttosto scadenti e i suoi pochi dolci non avevano alcun sapore.
La gente del villaggio avrebbe voluto acquistare soltanto il pane buono ma non entrava volentieri nella bottega del fornaio scorbutico. D’altro canto nessuno aveva il coraggio di lasciare senza lavoro il fornaio gioviale.
Così le famiglie si servivano ora dall'uno, ora dall'altro ed entrambi riuscivano a vivere con dignità. Un giorno però, qualcuno riferì al capo del villaggio di strani movimenti: qualcuno era stato visto aggirarsi notte tempo intorno ai due forni con un grande sacco. Il capo del villaggio, che era uno che voleva vederci chiaro nelle cose, si appostò una sera proprio fuori dalla bottega del fornaio scorbutico pensando che, se qualcosa di losco c’era, certamente era da attribuirsi a quell'uomo dal pessimo carattere.
Dopo lunghe e noiose ore di attesa scorse nella penombra una figura misteriosa entrare di soppiatto nella bottega con un grande sacco pieno e, poco dopo, uscirne con un sacco altrettanto gonfio.
“Altolà!” Intimò il capo del villaggio.
La figura misteriosa, con il sacco sulle spalle, tentò la fuga ma, appesantita dal carico, fu ben presto raggiunta.
“Fermo. Chi sei? E cosa stai facendo?” Domandò autoritario il capo del villaggio.
“Sono il fornaio”, rispose il fuggiasco con un filo di voce. E togliendosi l’ampio cappuccio che gli copriva il capo si mostrò al suo inseguitore. Il capo del villaggio si stupì non poco nel costatare che si trattava di quello gioviale del quale era diventato ottimo ed intimo amico. Il fornaio invitò il capo del villaggio a non fare rumore e lo condusse nella sua bottega.
“Amico – esordì – probabilmente ti stai chiedendo perché mi aggiro nella notte con questo sacco. Te lo dirò soltanto se mi prometti di non confidare a nessuno il mio segreto”.
Il capo del villaggio annuì con il capo, ma nel suo cuore nutriva qualche dubbio.
“Quello che vende il buon pane – riprese il fornaio – è mio fratello. Un tempo era una persona allegra e amichevole e il suo pane era famoso in tutta la contea. Venivano anche dai villaggi vicini per poter assaggiare i suoi dolci. Tutto quello che so l’ho imparato da lui che, con infinita pazienza e amorevolezza, mi ha insegnato i segreti della lievitazione e della cottura. Poi è arrivato lo spettro crudele della guerra che gli ha portato via la moglie e i suoi bambini. Da allora ha smarrito la gioia e… la sua arte. Il suo umore è diventato ombroso e il suo pane insipido. Nessuno andava più alla sua bottega e certamente sarebbe morto di fame. Così l’ho convinto a seguirmi fino a questo vostro villaggio”.
“Ma perché quel sacco?” lo interrogò con un filo di voce il capo del villaggio.
“Di notte, appena il mio pane si raffredda, lo carico in questo sacco e lo porto nella sua bottega. Quindi metto nel sacco il suo pane e lo porto nella mia. In questo modo, lui grazie al suo buon pane ed io grazie alla mia allegria, riusciamo a vivere”.
Il capo del villaggio si commosse profondamente nell'ascoltarle parole dell’amico e promise solennemente che non ne avrebbe fatto parola con nessuno.
Nei giorni successivi a quanti gli domandavano se aveva scoperto qualcosa rispondeva, senza dare possibilità di replica: “Sì, ho scoperto una grande differenza, quella che c’è tra il pane buono e il pane della bontà”.
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BISBIGLI E FIOCCHI
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@Arcangela Bruni
Ci vuole l’intervento della Fata Mestolina…
<Volete far silenzio? Li sveglierete per dindirindina! Cosa c’è?!>
<Oh insomma> risponde la caffettiera, <io voglio diventare una damina, ho una bellissima gonna a pieghe e un bustino che farebbe girare un battaglione di venti cavalieri e poi, vuoi mettere questo nasino alla francese?>
Dall’altra parte della stanza si alza un vocione basso: <ha ragione, anch’io sono stanco di essere un frigorifero, voglio salire in cielo e nevicare.>
La Fatina non sa più chi ascoltare ed ecco che il servizio di forchettine, salta fuori dal cassetto e con un balzo è sul tavolo: <anche noi ci vogliamo trasformare in cavallucci marini> <ed io>, dice la credenza, <voglio tornare nel bosco, sono stufa d’essere solo un contenitore, queste ante scricchiolanti un tempo erano forti tronchi e voglio tornare ad essere un albero!>
A quel punto la Fatina batte forte la sua bacchetta sul tavolo: <ascoltatemi bene, vecchi bizzosi, domani sarà un gran giorno per Nonno Ugo e Nonna Nena e non voglio assolutamente che nulla venga a rattristare un solo momento della loro giornata!>
<Ma…> interviene il frigorifero.
<Niente ma>, risponde stizzita la Fatina Mestolina.
<Vecchio cocciuto di un frigorifero, sei qui da tanti anni e il tuo respiro asmatico, scandisce le ore notturne di Nonna Nena, fai acqua da tutte le parti altro che neve!>
<E voi vezzose forchettine, non riuscite a stare a galla in una tinozza, figuriamoci nel mare, tornate nel cassetto!
Rivolge lo sguardo alla vecchia credenza: <come mai questi rimpianti?>
<Ho paura, Fatina, quando Loro non ci saranno più, mi faranno fare la fine di un vecchio pezzo di legno e sarò solo buono da bruciare.>
<No!> risponde la fatina, <io so già che tu sarai sempre con loro, magari in quella casa che hanno in campagna, così dalla finestra vedrai il bosco che ami tanto!>
<Sei sicura?>
<Si lo sono, li ho sentiti parlare. Smetti di piangere, le tue lacrime di resina colano sui crostini e non sono il massimo della bontà.>
<Veniamo a te vanitosa e presuntuosa di una caffettiera, sei qui con Loro da tanti anni. Ogni mattina si augurano buon giorno davanti al tuo caffè, vuoi privarli di questo piacere?>
Nella foga di parlare batte stizzita la sua bacchetta sul tavolo e il tavolo si lamenta con un semplice <ohi>
<Zitto tu> Lo rimprovera subito la Fatina.
Nel frattempo la caffettiera è diventata tutta rossa e risponde con una vocina sottile, <era solo un desiderio, piccolo piccolo, ma ho già cambiato idea>.
<Bravi! Riposatevi ora!>
Finalmente è tornata la calma. Le luci dell’alba sono lontane, Fatina pensa a domani, alla Loro giornata. Sarà veramente speciale. Un Natale con tutti i figli ed i nipoti.
Nulla dovrà rovinare questa giornata. Sono anziani e tutto quello che Li circonda ricorda loro, la propria giovinezza, i figli, gli scherzi, le gioie e i dolori.
Domani sarà una giornata particolare da ricordare nelle serate successive, quando tutti saranno tornati alle proprie case.
Intanto dalla camera, Nonna Nena si rivolge al suo Ugo:
<Non ti sembra che da un po’ di tempo, di notte, questa casa parli?>
<Dormi Nena, è solo la vecchiaia che fa brutti scherzi.>
<Sarà…>
<Buonanotte.>
<Buonanotte anche a te!>
La Fatina dal suo rifugio, sorride maliziosa.
La sveglia suona, <forza Nena alzati, tra un po’ arrivano i ragazzi!>
<Vado a fare il caffè, non tirare tardi in bagno, voglio farmi bella anch’io!>
…Nena si avvia in cucina… <oh per tutti i chicchi di caffè del mondo chi ha messo un fiocco alla caffettiera?>…
Il fabbricante di doni
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Giba e Sari
Il fabbricante di doni
Fabbricava regali. Raccoglieva nel bosco, vicino alla vecchissima casarella che gli era rimasta dopo la partenza dei suoi per un punto imprecisato del tempo o dello spazio, legnetti secchi e pigne da seccare al Sole, qualche castagna selvatica indurita e, con quello che aveva raccolto, fabbricava regali.
Lui fabbricava regali. Non aveva altro da fare e per sfamarsi non aveva che da scendere a valle, in paese, dove il fornaio gli regalava sempre, senza che lui lo chiedesse, un filone di pane. Al mercato poi c'erano gli scarti della frutta, quella un po' ammaccata ma buona che nessuno comprava. Le erbe del sottobosco erano deliziose, nel pane, appena colte e tagliuzzate. Acqua ne aveva a volontà, fredda e pura, sempre scorrente dalla fontanella appena fuori casa.
Lui fabbricava regali. Gli piaceva curvare gli stecchi sottili alla fiamma del camino, fare strani pupazzi con per testa una castagna e per occhi due sassolini. Non avevano bocca ma un bel naso sì, fatto con un pezzettino di legno. Faceva anche piccole slitte e carriole con strane ruote piene, ricavate da tondi di legno.
Era un omino ormai vecchio, con qualche raro pelo sul volto e senza capelli. Qualche dente gli era rimasto, per fortuna, ed il suo sorriso risultava ancora gradevole anche con qualche, inevitabile, vuoto fra un dente e l'altro.
I regali li sistemava in fila, davanti alla sua reggia ed ormai riempivano tutto lo spiazzo ed anche parte del sentiero che scendeva a valle. Lui aspettava, da sempre, che qualcuno si presentasse e ne chiedesse almeno uno in dono. Non successe mai, durante la sua vita.
Davanti a casa sua non passava nessuno e lui era troppo timido per portare qualche oggettino in paese e regalarlo. Così attese, attese tanto che morì, nel silenzio della notte, passando dal sonno alla quiete definitiva senza accorgersene.
Tre giorni dopo il panettiere si preoccupò, non vedendolo, e salì a monte. Lui dormiva per sempre, circondato dai suoi oggettini, offerti da una vita e mai notati.
Il fornaio si sedette e pianse in silenzio quell'ometto così pieno d'amore sempre offerto e mai donato. Poi si chinò, raccolse una piccola slitta e scese a valle.........
Giba
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Era inverno e di fiori non ce n'erano nelle aiuole, ma il Fornaio sapeva dove fioriva il calicantus ed andò a coglierne.
Con quel mazzetto di rami profumati fra le mani, tornò alla vecchia caserella abitata da quello strano personaggio che ogni tanto si presentava, sorridente ma quasi muto in paese, e vi andò con un amico ed il prete per dargli cristiana sepoltura.
Salirono in silenzio, ognuno assorto nella propria parte oscura che in quel momento attribuiva alla triste occasione.
Quale fosse il nome del defunto, non lo si sapeva perchè nessuno aveva mai sentito il bisogno di chiamarlo... ma ora, che non era più, doveva per forza averne uno. Decisero che Giovanni gli sarebbe stato bene e così, tra un sospiro imposto dalla salita e qualche tentativo di ricordare un episodio della vita del morto, fatto quasi ad orazione, il Fabbricante di doni fu battezzato.
Arrivarono alla povera casa e, oltrepassata la soglia, i tardivi visitatori sentirono quel passo come una profanazione. Si guardarono smarriti attorno cercando quel che temevano di trovare, ma non videro nulla. Giovanni pareva essere sparito e nella casupola non trovarono segno alcuno della sua presenza.
Volgendo lo sguardo tutto intorno, trovarono solo tanti piccoli regali allineati su ruvide mensole, ed erano così tanti che quella poteva essere la casa di Babbo Natale. Rimasero meravigliati dalla perfezione e dall'amore con cui quegli oggetti erano stati curati, ma quel giorno non era tempo di stupori e ripresero la ricerca di un Giovanni che non si trovava e non si trovò.
Chi accompagnava il Fornaio, sostenne che si fosse sbagliato e che Giovanni non fosse morto ma in giro per boschi a cogliere materiale per quei balocchi che evidentemente amava confezionare. Ritornando, si chiesero perchè Giovanni lavorasse in solitudine e nel silenzio ma nessuno seppe trovarne ragione.
Con quel mistero addosso, tornarono alle loro case ed alle occupazioni solite.
Fece così anche il Fornaio che però sapeva... era certo di avere trovato Giovanni senza vita e si domandava quale mistero si celasse nella sua scomparsa. Tornò ancora alla casa dei doni, come lui ormai la chiamava, e batteva i boschi che l'attorniavano. Urlò più e più volte il nome del fabbricante di doni ma fu un'inutile voce che s'inoltrava fra i rami e il fogliame. Da quelle visite, il fornaio tornava sconfitto, pensieroso e pieno di domande senza risposta.
Un giorno tornò alla casupola e, preso un sacco, lo riempì di tutti i tesori che Giovanni aveva confezionato, li portò nella sua bottega e li regalò a chi glieli chiedeva. Erano così graziosi, insoliti e benfatti che in breve sparirono e gliene chiesero ancora regalandogli quella gioia che in vita Giovanni si era negato.
Venne un'altra grande nevicata, l'ultima della stagione, si sperava, ed il Fornaio fu assorbito dal suo lavoro che era faticoso ed impegnativo. Ma con la buona stagione, che ormai sbocciava in ogni aiuola, fosso e campo, decise di tornare lassù, nella casa dei doni pur sapendo di trovarla vuota.
Arrivato che fu, faticò ad aprire la porta che non cedette facilmente a causa dell'umidità ed entrò nell'unico locale abitato da Giovanni. Lì, ben allineati sulle assi, c'erano tantissimi doni e parevano ancora più belli dei precedenti.
Il Fornaio li raccolse senza meraviglia perchè dopo la sparizione di Giovanni, tutto gli pareva possibile. Prese i regali e li portò al paese dove andarono, anche questa volta, a ruba.
I piccoli che giocarono con i doni di Giovanni erano così lieti e sereni, crescevano così bene che presto si pensò di attribuire a loro il merito: contenevano sicuramente tutto il bene della vita e della natura.
La voce dei doni di Giovanni si sparse e presto nella bottega del Fornaio ci fu la fila per quei regali che chiamavano già miracolosi. E lo erano per davvero perchè ogni volta che terminavano, il Fornaio tornava a casa di Giovanni e sempre ne trovava di nuovi. Chi lo seguì per scoprire chi li confezionasse, trovò solo mensole vuote ed odore di muffa. Il Fornaio no, lui non tornava mai a mani vuote.
Presto tutto il mondo si trovò a giocare con i regali di Giovanni e, giocando giocando, gli animi divennero lievi.. la letizia generale si alzò dalla terra e toccò il cielo. Lì, riparò il buco nell'ozono, annullò tutte le pericolosità prodotte dalla scempiaggine dell'uomo, colmò ogni anfratto, lisciò ogni stortura ed il mondo divenne perfettamente tondo... un paradiso.
Il paradiso di Giovanni.
Sari
Un Natale di guerra
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Sari
Si acquattò nella notte gelida, ringraziando silenziosamente la montagna che si era aperta per offrirgli riparo. Era stanco ed affamato. Fino ad ora aveva sempre trovato acqua per dissetarsi ma la mancanza di cibo gli faceva contorcere le viscere. L’ansia poi, peggiorava la sua già grave situazione provocandogli tormenti che solo lo sfinimento sedava.
Si sedette, aggiustandosi il mantello di pelo ruvido che fungeva anche da coperta per la notte. I calzari che si era faticosamente cucito poco tempo addietro, erano frusti. Avrebbe dovuto catturare un'altra piccola bestiola per carpirne il manto e cucirsene altri ma nella custodia aveva solo due piccole freccette aguzze... forse non sarebbero bastate per la caccia dell’indomani.
La terra in cui era ormai giunto, gli era nota. Era la sua terra. Quella dalla quale era fuggito molti mesi addietro, costretto da una guerra che da tempo immemore, non vedeva ne’ vincitori ne’ vinti.. ma solo donne e vecchi in lacrime.
Tornava nonostante il pericolo. Tornava per la sua donna, per la quale doveva essere vicino il tempo del parto. Non l’avrebbe lasciata sola, voleva essere presente quando il loro bambino sarebbe nato.
Accese un piccolo fuoco con le ultime micce che aveva preparato prima di affrontare il viaggio di ritorno, preparò un infuso con le poche erbe che rimanevano nella sua bisaccia e bevette avidamente provando immediato ristoro. Poi, si aggiustò per la notte.
Il fuoco era spento ormai da tempo, ma lui non trovava riposo. Guardava il cielo, calmo e stellato sognando, e contemporaneamente temendo, il momento in cui sarebbe giunto nell’antica abitazione della sua famiglia, una terra occupata da estranei.
Cercò inutilmente di scacciare i pensieri che gli scurivano la mente: se non avesse riposato, i suoi sensi intorpiditi lo avrebbero reso facile preda dei nemici da cui doveva guardarsi.
Dopo ore insonni, decise di rimettersi in cammino.
Fu doppiamente cauto, guardingo e camminò per ore. Conosceva ogni rumore della notte, ma ad ogni imprevisto volo o grida d’uccelli notturni, provava sempre maggior spavento e temeva di smarrirsi.
Era stanco. Troppo stanco. Ma stava giungendo l’alba e non avrebbe dovuto farsi sorprendere in quel terreno scoperto. Più in fretta, doveva procedere più veloce…
Ordinava alle sue gambe, ormai molli, di reggerlo ancora un po’… alla sua stanchezza di non urlare… alla sua mente di non cedere all’oblio.
Gli parve di vedere un’ombra. Era vera o erano i primi segni del suo cedere alla stanchezza ed alla paura? Si fermò.
L’ombra si fece più grande e lui, pur preso da sfinimento, si preparò a combattere.
Quando si riebbe, sentì in gola un sapore dimenticato, forte. Attorno a lui c’era tepore e cercò di alzarsi per guardarsi intorno. Una mano lo fermò ed una voce d’uomo gli disse di restare sdraiato.
La mente ancora intorpidita lo costrinse ad obbedire e si riaddormentò.
Una forte luce lo ridestò, rischiarò per un attimo il cielo a giorno e improvviso s’alzò, alto nella notte, un vagito.
Scosso, rabbrividì impaurito ma una voce dolce lo chiamò per nome. Era la voce della sua donna e preso da infinita gioia, strisciò accanto a lei e carezzò, con mano tremante di debolezza, il suo volto stanco e sudato.
La gioia di averla accanto, con il figlio appena nato per cui stava rischiando la vita, lo vinse e sentì la commozione stringergli la gola.
Ma subito si riacutizzò il senso di pericolo che era ormai diventato parte di lui e velocemente si alzò, costringendo la sua donna, con il bimbo stretto al seno, a fare altrettanto.
Lo sopraffecero allora tante voci.
Pace… pace… pace… dicevano.
Era il 25 dicembre ed era arrivata la Pace. Niente più fughe. No alla fame. No al freddo. No alla paura. No alla morte. PACE.
Allora si inginocchiò sul terreno e urlò. Urlò per improvvisa e troppo grande gioia.
Urlò. E quel grido fu la sua più alta forma di ringraziamento al Cielo.
Lassù, le stelle cominciavano a schiarire. La lunga notte era passata.
Ora era tempo di LUCE, di SPERANZA , di VITA
Due Angeli
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Sari
Un piccolo angelo, ad ali spiegate, planò dolcemente sulla terra. Faceva freddo, ma la contentezza che aveva in cuore lo scaldava più del sole. Si sentiva colmo e felice perchè era toccato a lui, proprio a lui, l’incarico di trovare un bel regalo per il suo Signore che sarebbe nato sulla terra, dono di Dio all’umanità.
Lo voleva bello, immenso e speciale, quel regalo.. e già immaginava la gioia che avrebbe provato quando l'avrebbe porto al suo Signore Bambino nel giorno del suo Natale.
Spiccò il volo e dalla alla cima del monte dove lo avevano portato le sue piccole ma potenti ali, osservò le moltitudini di uomini, certo che tra loro, avrebbe trovato quel meglio che il divin nascituro amava.
Si riposò brevemente, radunò i pensieri, poi cominciò a scrutare ogni orizzonte.
Guardò a nord, ma non vi trovò niente di adatto.
Guardò a sud, senza esito.
Spostò lo sguardo ad est poi a ovest, ma non trovò nulla.
- Impossibile - si disse e si dispose ostinatamente a passare e ripassare ogni angolo della terra spostando le coordinate di osservazione e alzandosi ed abbassandosi in volo, più e più volte, per scrutare le punte più alte e più basse della terra.
Niente, i suoi voli furono infruttuosi. perchè nulla di quel che aveva visto era degno del suo Signore Bambino.
Si rabbuiò, sospirò pensieroso e decise di riposare. Ripresa nuova e speranzosa energia, si mise nuovamente alla ricerca e scandagliò ogni più piccolo anfratto della terra.
Mentre procedeva nella sua ostinata e vana ricerca, sentiva la tristezza impossessarsi del suo cuore e le piccole ali divenire pesanti... anche loro parevano dirgli quanto fosse inutile continuare la ricerca.
La sera lo trovò stremato: aveva guardato ovunque trovando solo guerre, devastazioni, odi, egoismi e smisurate avidità.
La visione di quel che era diventata la terra, gli divenne così tanto insopportabile che decise di non guardarla un attimo di più. Deluso ed affranto, distolse in fretta lo sguardo ma poi... un pensiero lo attraversò come lama: il suo Signore avrebbe sofferto ben più di lui nel sapere quel che accadeva sulla terra. Ed un altro pensiero ancora si aggiunse alle sue già gravi preoccupazioni: il suo Signore non avrebbe avuto nessun regalo quell’anno.
Oh, il suo dolore di piccolo angelo, che pur sentiva vivo e tagliente in petto, sarebbe stato ben poca cosa se confrontato con quello tremendo che avrebbe provato Lui, quell'anno.
Nel cuore gli scese una immensa e profonda tristezza e, infinitamente stanco ed angosciato, si lasciò cadere sul terreno, ripiegò le ali attorno al visetto e pianse.
Pianse a lungo di un pianto che pareva non dovesse smettere mai.
Pianse fino allo sfinimento finchè il sonno clemente lo vinse e si addormentò.
Lo svegliò un tocco leggero, alzò sorpreso lo sguardo e vide accanto a sé un vecchio angelo.
- Che fai - gli disse con tono burbero ma con un sorriso che sminuiva la durezza delle parole - dormi, invece di preparare il dono per il Divino? -
- Oh, tu non sai - disse l'angiolino scattando in piedi - tu non sai quanto ho cercato, quanto ho volato di terra in terra... ho arato con le ali il cielo e frugato in ogni luogo ma.. inutilmente. Nulla, non c'è nulla di buono da offrire al nostro Bambinello e lui ne patirà terribilmente. -
Mentre parlava, raccontando con foga delle sue ricerche, gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime che, orgogliosamente, trattenne.
- Non è possibile - disse l'antico angelo - non scoraggiarti, sei alla tua prima esperienza e devi abituare il tuo sguardo.. vieni con me, cercheremo insieme. –
- Quel che mi avevano raccontato della terra, non esiste più - insistette con voce tremula il piccolo angelo - tu non lo sai perchè sei appena arrivato dal cielo e... -
Il grande angelo tacque, gli rivolse uno sguardo penetrante e, presolo per mano, lo fece rialzare dolcemente portandolo in volo a scrutare nuovamente il mondo.
- Che ti dicevo? Le vedi? Vedi le guerre, le violenze, le sopraffazioni? Le ho guardate per ore ed ore – insistette l’angioletto che fremeva affranto, con la breve speranza che si spegneva nuovamente in cuore.
- Anche la vista va allenata – disse con voce paternamente calma il grande angelo tenendo stretta nella sua vecchia mano quella tenera e piccina.
- Chiudi gli occhi e guarda. Guarda anche con il cuore perchè la sua vista è speciale. -
Il piccolo angelo, obbediente, chiuse gli occhi e pur se le lacrime fremevano dietro le palpebre chiuse, si dispose a fare come diceva il vecchio angelo.
Pian piano si calmò sentendo la fiducia, quella che solo i piccoli sanno provare, riempirgli il cuore.
Nel silenzio profondo, cominciarono ad arrivargli a frotte sensazioni meravigliose. Sì, arrivavano proprio dalla terra e giungevano così forti da annullare il clangore delle armi e lo stridio dei sentimenti cattivi.
Respirò a fondo, sorrise stupito e s’inebriò di tutto quel che il mondo gli trasmetteva.
- Vedi? – disse il vecchio osservandolo con un sorriso negli occhi – Ricordati sempre di non fermare il tuo sguardo a ciò che gli occhi mostrano. Oltre c'è ben altro. -
L’angioletto era felice, felice, felice e così colmo d’entusiasmo che, ancora una volta, gli occhi si riempirono del pianto che, questa volta, non riuscì a trattenere.
Le sue lacrime caddero a terra ma non inzupparono il terreno perchè subito si trasformarono in perle luminose.
- Cosa sceglierò per il nostro Bambino? - chiese fremente di gioia per la tanta abbondanza che vedeva. -
- Porta quelle – disse il vecchio additando le lucenti lacrime – A Lui piaceranno.
Questa volta l'angiolino non perse tempo a discutere, si chinò, raccolse in fretta le perle che ripose in una tasca del suo abito, insinuò la sua piccola mano in quella sicura del vecchio angelo e volò via con lui.. ali veloci nella notte.
La mezzanotte stava per scoccare. La neve, che lieve stava imbiancando le cime dei campanili, s'infittì e i due angeli si confusero ben presto con gli stracci candidi che scendevano silenziosi e leggeri.
Al primo rintocco delle campane, e per un solo prezioso attimo, in ogni cuore di questo mondo, fu silenzio, gioia e PACE.
Arrivarono solo in tre
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Bruno Ferrero
Forse non tutti sanno che un tempo, quando non esistevano i computer, tutto il sapere del mondo era concentrato nella mente di sette persone sparse nel mondo: i famosi Sette Savi, i sette sapienti che conoscevano i come, i quando, i perché, i dove di ogni cosa che accadeva. Erano talmente importanti che erano considerati dalla gente dei re, anche se non lo erano; per questo erano chiamati Re Magi.
Nell'anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i Magi giunsero ad una strabiliante conclusione: proprio in una notte di quell'anno sarebbe apparsa una straordinaria stella che li avrebbe guidati alla culla dei Re dei re. Da quel momento passarono ogni notte a scrutare il cielo e a fare preparativi, finché davvero una notte nel cielo apparve una stella luminosissima; i Sette Savi partirono dai sette angoli del mondo dove si vivevano e si misero a seguire la stella che indicava loro la strada. Tutto quello che dovevano fare era non perderla mai di vista.
Ognuno dei sette Magi, tenendo gli occhi fissi sulla stella, che poteva vedere giorno e notte, cavalcava per raggiungere il Monte delle Vittorie, dove era stabilito che i sette savi dovevano incontrarsi per formare una sola carovana.
Olaf, re Mago della Terra dei Fiordi, attraversò le catene dei monti di ghiaccio e arrivò presto in una valle verde, dove gli alberi erano carichi di frutti squisiti e il clima dolce e riposante; il mago vi si trovò così bene che decise di costruirsi un castello. Così, ben presto, si scordò della stella.
Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e coraggioso, abile con la spada e molto generoso. Attraversando il regno del re Rosso, un sovrano crudele e malvagio, decise di riportare la pace e la giustizia per quel popolo maltrattato; così divenne il difensore dei poveri e degli oppressi, perse di vista la stella e non la cercò più.
Yen Hui era il re Mago del Celeste Impero, era uno scienziato e un filosofo, appassionato di scacchi. Un giorno arrivò in una splendida città dove uno studioso teneva una conferenza sulle origini delll'universo; Yen Hui non riuscì a resistere, lo sfidò ad un dibattito pubblico, si confrontarono su tutti i campi del sapere e per ultimo iniziarono una memorabile partita a scacchi che durò una settimana. Quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a trovarla.
Lionel era un re Mago poeta e musicista, che veniva dalle terre dell'Ovest e viaggiava solo con strumenti musicali. Una sera fu ospitato per la notte da un ricco signore di un pacifico villaggio. Durante il banchetto in suo onore, la figlia del signore danzò e cantò per gli invitati e Lionel se ne innamorò perdutamente; così finì per pensare solo a lei e nel suo cielo la stella miracolosa scomparve piano piano.
Solo Melchior, re dei Persiani, Balthasar, re degli Arabi e Gaspar, re degli Indi, abituati alla fatica e ai sacrifici, non diedero mai riposo ai loro occhi, per non rischiare di perdere di vista la stella che segnava il cammino, certi che essa li avrebbe guidati alla culla del Bambino, venuto sulla terra a portare pace e amore. Così ognuno di loro arrivò puntuale all'appuntamento al Monte delle Vittorie, si unì ai compagni e insieme ripresero la loro marcia verso Betlemme, guidati dalla stella cometa, più luminosa che mai.
Nell'anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i Magi giunsero ad una strabiliante conclusione: proprio in una notte di quell'anno sarebbe apparsa una straordinaria stella che li avrebbe guidati alla culla dei Re dei re. Da quel momento passarono ogni notte a scrutare il cielo e a fare preparativi, finché davvero una notte nel cielo apparve una stella luminosissima; i Sette Savi partirono dai sette angoli del mondo dove si vivevano e si misero a seguire la stella che indicava loro la strada. Tutto quello che dovevano fare era non perderla mai di vista.
Ognuno dei sette Magi, tenendo gli occhi fissi sulla stella, che poteva vedere giorno e notte, cavalcava per raggiungere il Monte delle Vittorie, dove era stabilito che i sette savi dovevano incontrarsi per formare una sola carovana.
Olaf, re Mago della Terra dei Fiordi, attraversò le catene dei monti di ghiaccio e arrivò presto in una valle verde, dove gli alberi erano carichi di frutti squisiti e il clima dolce e riposante; il mago vi si trovò così bene che decise di costruirsi un castello. Così, ben presto, si scordò della stella.
Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e coraggioso, abile con la spada e molto generoso. Attraversando il regno del re Rosso, un sovrano crudele e malvagio, decise di riportare la pace e la giustizia per quel popolo maltrattato; così divenne il difensore dei poveri e degli oppressi, perse di vista la stella e non la cercò più.
Yen Hui era il re Mago del Celeste Impero, era uno scienziato e un filosofo, appassionato di scacchi. Un giorno arrivò in una splendida città dove uno studioso teneva una conferenza sulle origini delll'universo; Yen Hui non riuscì a resistere, lo sfidò ad un dibattito pubblico, si confrontarono su tutti i campi del sapere e per ultimo iniziarono una memorabile partita a scacchi che durò una settimana. Quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a trovarla.
Lionel era un re Mago poeta e musicista, che veniva dalle terre dell'Ovest e viaggiava solo con strumenti musicali. Una sera fu ospitato per la notte da un ricco signore di un pacifico villaggio. Durante il banchetto in suo onore, la figlia del signore danzò e cantò per gli invitati e Lionel se ne innamorò perdutamente; così finì per pensare solo a lei e nel suo cielo la stella miracolosa scomparve piano piano.
Solo Melchior, re dei Persiani, Balthasar, re degli Arabi e Gaspar, re degli Indi, abituati alla fatica e ai sacrifici, non diedero mai riposo ai loro occhi, per non rischiare di perdere di vista la stella che segnava il cammino, certi che essa li avrebbe guidati alla culla del Bambino, venuto sulla terra a portare pace e amore. Così ognuno di loro arrivò puntuale all'appuntamento al Monte delle Vittorie, si unì ai compagni e insieme ripresero la loro marcia verso Betlemme, guidati dalla stella cometa, più luminosa che mai.
Soltanto i Magi che hanno davvero vigilato non hanno perso l'appuntamento più importante della loro vita. Ogni cristiano, come una sentinella, deve stare all'erta e non lasciarsi prendere dalla pigrizia o dal torpore, perché il Signore ci aspetta alla Sua culla..
A volte ritornano…
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Liliana Batà
Provenivano da quel villaggio sulla riva del fiume ed avevano già percorso un tragitto lungo e faticoso. Erano in tre e procedevano sui tre cammelli, stancamente.
L’uomo che sembrava guidare la breve carovana era di pelle nera, mentre gli altri due erano bianchi sebbene dagli occhi grandi e scuri.
Uno era piuttosto anziano, la sua barba lunga e quasi tutta bianca lo distingueva. Aveva anche il volto più sofferente, il viaggio durava ormai da diverse ore e la meta sembrava ancora lontana.
Un sole enorme che si faceva guardare ,d’uno splendore surreale e fiabesco era ormai basso sulla linea dell’orizzonte intersecato da dune sorprendentemente alte e rossicce.
Il deserto era totalmente solitudine e silenzio.
Il vento che fino ad un attimo prima li aveva accompagnati con respiri leggeri cominciò a soffiare sempre più forte suscitando a poco a poco una vera tempesta di sabbia.
I tre uomini dapprima si avvolsero completamente nei loro ampi mantelli, lasciando liberi solo gli occhi, ma ben presto stimarono più prudente fermarsi ed aspettare che la tempesta si placasse.
Con gesti esperti, l’uomo dalla pelle nera, ottenne che i tre cammelli si piegassero sulle zampe, ed anche loro tre si accovacciarono coprendosi totalmente dalla testa ai piedi con i loro mantelli e lasciandosi sommergere dalla sabbia, solo per un attimo l’uomo con la barba ebbe modo d’osservare quanto previdente era stata la natura nel dotare di lunghissime ciglia gli occhi dei cammelli a difesa della vista di questi pazienti abitatori e viaggiatori di tali luoghi aridi e ventosi.
Nella notte desertica intabarrati e silenziosi ascoltarono la voce del vento che sembrò alternare inquietanti ululati a canti corali.
Verso l’una del mattino finalmente il vento tacque ed i tre, scuotendo dalle vesti tutta la sabbia che li aveva sommersi, si rimisero in viaggio sotto un cielo talmente basso e fitto di stelle da ricavarne l’impressione di cavalcarvi dentro.
Brillava particolarmente a oriente una stella tanto grande i cui bagliori sembravano creassero una scia luminosa di cometa.
-E’ Giove- disse l’uomo che stava in coda, indicando la stella.
-No- rispose l’uomo con la barba bianca- è Venere.
-Come fai ad esserne certo?-
-Solo Venere appare così grande, essendo molto vicina alla Terra, Giove invece, pur essendo il gigante dello spazio all’interno del sistema solare è lontanissimo dalla Terra diverse centinaia di milioni di chilometri per cui nel cielo non appare mai grande quanto Venere…
Tacquero e nella notte del deserto dalle dune altissime e rosse, si udirono versi d’animali sconosciuti. I sentieri sassosi percorsi erano talmente aridi che era impossibile immaginare una qualsiasi forma di vita e quando l’uomo dalla barba bianca sembrò sorpreso nello scorgere a terra un ciuffo di foglie con piccolissimi fiori, l’uomo dalla pelle nera disse:
-Per la loro vita basta l’umidità che è nell’aria e che giunge dall’oceano, portata dal vento…-
L’uomo che sembrava guidare la breve carovana era di pelle nera, mentre gli altri due erano bianchi sebbene dagli occhi grandi e scuri.
Uno era piuttosto anziano, la sua barba lunga e quasi tutta bianca lo distingueva. Aveva anche il volto più sofferente, il viaggio durava ormai da diverse ore e la meta sembrava ancora lontana.
Un sole enorme che si faceva guardare ,d’uno splendore surreale e fiabesco era ormai basso sulla linea dell’orizzonte intersecato da dune sorprendentemente alte e rossicce.
Il deserto era totalmente solitudine e silenzio.
Il vento che fino ad un attimo prima li aveva accompagnati con respiri leggeri cominciò a soffiare sempre più forte suscitando a poco a poco una vera tempesta di sabbia.
I tre uomini dapprima si avvolsero completamente nei loro ampi mantelli, lasciando liberi solo gli occhi, ma ben presto stimarono più prudente fermarsi ed aspettare che la tempesta si placasse.
Con gesti esperti, l’uomo dalla pelle nera, ottenne che i tre cammelli si piegassero sulle zampe, ed anche loro tre si accovacciarono coprendosi totalmente dalla testa ai piedi con i loro mantelli e lasciandosi sommergere dalla sabbia, solo per un attimo l’uomo con la barba ebbe modo d’osservare quanto previdente era stata la natura nel dotare di lunghissime ciglia gli occhi dei cammelli a difesa della vista di questi pazienti abitatori e viaggiatori di tali luoghi aridi e ventosi.
Nella notte desertica intabarrati e silenziosi ascoltarono la voce del vento che sembrò alternare inquietanti ululati a canti corali.
Verso l’una del mattino finalmente il vento tacque ed i tre, scuotendo dalle vesti tutta la sabbia che li aveva sommersi, si rimisero in viaggio sotto un cielo talmente basso e fitto di stelle da ricavarne l’impressione di cavalcarvi dentro.
Brillava particolarmente a oriente una stella tanto grande i cui bagliori sembravano creassero una scia luminosa di cometa.
-E’ Giove- disse l’uomo che stava in coda, indicando la stella.
-No- rispose l’uomo con la barba bianca- è Venere.
-Come fai ad esserne certo?-
-Solo Venere appare così grande, essendo molto vicina alla Terra, Giove invece, pur essendo il gigante dello spazio all’interno del sistema solare è lontanissimo dalla Terra diverse centinaia di milioni di chilometri per cui nel cielo non appare mai grande quanto Venere…
Tacquero e nella notte del deserto dalle dune altissime e rosse, si udirono versi d’animali sconosciuti. I sentieri sassosi percorsi erano talmente aridi che era impossibile immaginare una qualsiasi forma di vita e quando l’uomo dalla barba bianca sembrò sorpreso nello scorgere a terra un ciuffo di foglie con piccolissimi fiori, l’uomo dalla pelle nera disse:
-Per la loro vita basta l’umidità che è nell’aria e che giunge dall’oceano, portata dal vento…-
Il viaggio continuò faticoso e tuttavia le ore sembravano volare per lo stupore che la bellezza del paesaggio africano suscitava.
A poco a poco le stelle tramontarono lasciando indugiare ancora per un po’ Venere splendente e solitaria la cui luce s’unì a quella d’un’ alba chiara che illuminò finalmente la meta.
I tre discesero silenziosamente dagli stanchi cammelli dalle gobbe ormai afflosciate,
e subito un grido esultante li salutò:
-Professor Landi, dottor Fattorusso che gioia, sia lodato il Signore, siamo stati tanto in pena…giungete proprio mandati da Gesù…-
Era una donna, un’infermiera laica volontaria di nome Lucia, col camice bianco e la cuffietta, subito raggiunta da suor Caterina e suor Rita e quindi da Antonio e Mauro anche loro infermieri laici volontari…
La piccola missione di don Francesco si animò, ma non ebbero il tempo di parlare perché le loro voci furono ben presto sovrastate da un pianto di neonato…
Il professor Landi venne subito sospinto verso l’interno della piccola missione, e si ritrovò in una piccola povera stanza, dove una madre pallidissima giaceva nel letto coperta da sdrucite lenzuola non proprio tanto bianche, stringendo fra le braccia il suo piccolo appena nato. Accanto a lei un uomo non più giovane, dallo sguardo attento ed affettuoso.
-E’ giunta ieri- spiegò suor Caterina, il piccolo è nato questa notte, la madre è giovanissima, ha avuto un brutta emorragia…abbiamo avuto timore di perderla…
il Signore vi ha fatto arrivare in tempo…ma vedo che…vi è successo qualcosa durante il viaggio…
-Sì suor Caterina, sì Lucia, ma ora non è il momento di spiegarvi…questa ragazza deve avere subito del sangue…dottor Fattorusso, procediamo subito a preparare la paziente ad un prelievo per il riconoscimento del suo gruppo sanguigno e preghiamo Iddio di avere il sangue che le servirà…e tu Akin, sei stato tanto generoso finora- disse rivolgendosi all’uomo dalla pelle nera che li aveva guidati nel deserto- ti prego, trasferisci nella saletta accanto a questa camera, tutti i medicinali che siamo riusciti a salvare e trasportare fin qui.
Il professore con gesti sicuri cominciò a prepararsi per intervenire in aiuto della giovane madre, chiaramente in pericolo di vita. Quel volto esangue esprimeva attenzione a quanto stava accadendo e pur non capendo la lingua, sembrava capire ogni parola. Era una fanciulla di sedici anni, si chiamava Kainda, l’uomo che le era accanto, Bandele suo padre, anche lui seguiva ogni discorso e sembrava capire un’unica cosa : che c’erano intorno persone che li avrebbero aiutati.
In quel momento don Francesco Gorini entrò esultante a braccia spalancate si accostò e li strinse a sé dicendo :
-Ecco i Re Magi che il Signore ci manda-
C’erano altre madri con bambini in quella sperduta missione dotata d’un minuscolo ospedaletto che pur nella sua povertà, riusciva ad aiutare, spesso salvare, persone in pericolo di vita anche per una semplice influenza o comunque per una di quelle malattie che nei paesi del consumismo sfrenato, equivalgono a semplici raffreddori.
La chiesetta della missione era illuminata, infatti don Gorini come sempre, era in procinto di celebrare la prima messa allo spuntar dell’alba, circondato dagli abitanti del minuscolo villaggio di povere capanne che stava nascendo tutto intorno alla sua modesta ma accogliente ed amorevole missione. Era accorso subito, lasciando in attesa tutti i presenti nella chiesetta, dove un inconsueto presepio fatto di pastori scuri intagliati nel legno rievocavano una Natività tutta africana.
Così mentre il Professor Landi ed il dottor Fattorusso, collaborati dalla zelante Lucia e da altre presenze volontarie cominciarono a visitare e somministrare cure e medicine, una musica ed un coro provenienti dalla chiesina, riempirono l’aria del Natale e gli animi d’una Pace che solo coloro che operano nel nome del Signore, possiedono.
Appena fu possibile, dopo molte ore di ininterrotto lavoro, si ritrovarono raccolti tutti insieme, intorno ad un tavolo per un essenziale pasto arricchito per l’occasione importante, da biscotti preparati da suor Caterina e suor Rita.
Il professor Landi raccontò dell’assalto da parte d’una banda di disperati, armati di pochi fucili e qualche machete, alla spedizione italiana destinata alla missione di don Gorini. Si trattava d’un carico di alimenti di prima necessità, i delinquenti prima di andar via, avevano anche rubato la benzina dal serbatoio del grande camion, lasciando tutti, fortunatamente illesi ma avviliti di non poter continuare il viaggio. S’accorsero però che fortunatamente le medicine, tra cui un numero rilevante di importanti vaccini, non erano state portate via. Mentre tutti furono presi dall’avvilimento di non poter ripartire rischiando di rimanere in quella zona desertica e solitaria chissà per quanto tempo e con quali conseguenze, i due autisti che guidavano a turno, ispezionando ulteriormente il mezzo, avevano scoperto che due taniche di benzina erano passate inosservate perché situate sotto cassette vuote e capovolte. Questo fu un momento di gioia per tutti, perché così fu possibile arrivare al più vicino villaggio peraltro non molto distante dalla città di Windhoek.
-E qui- continuò il professor Landi- grazie ad un gruppetto di volontari più esperti abbiamo avuto modo di contattare Akin recandoci presso la sua capanna, dove vive con le due mogli ed i sette figlioli e le suocere.
Akin ci ha subito prospettato la possibilità di arrivare sin qui, viaggiando su cammelli.
Infatti anche a noi è sembrato giusto partire solo in tre, visto che eravamo stati derubati di quasi tutto il carico.
Al ritorno siamo attesi in un albergo di Windhoek-
A poco a poco le stelle tramontarono lasciando indugiare ancora per un po’ Venere splendente e solitaria la cui luce s’unì a quella d’un’ alba chiara che illuminò finalmente la meta.
I tre discesero silenziosamente dagli stanchi cammelli dalle gobbe ormai afflosciate,
e subito un grido esultante li salutò:
-Professor Landi, dottor Fattorusso che gioia, sia lodato il Signore, siamo stati tanto in pena…giungete proprio mandati da Gesù…-
Era una donna, un’infermiera laica volontaria di nome Lucia, col camice bianco e la cuffietta, subito raggiunta da suor Caterina e suor Rita e quindi da Antonio e Mauro anche loro infermieri laici volontari…
La piccola missione di don Francesco si animò, ma non ebbero il tempo di parlare perché le loro voci furono ben presto sovrastate da un pianto di neonato…
Il professor Landi venne subito sospinto verso l’interno della piccola missione, e si ritrovò in una piccola povera stanza, dove una madre pallidissima giaceva nel letto coperta da sdrucite lenzuola non proprio tanto bianche, stringendo fra le braccia il suo piccolo appena nato. Accanto a lei un uomo non più giovane, dallo sguardo attento ed affettuoso.
-E’ giunta ieri- spiegò suor Caterina, il piccolo è nato questa notte, la madre è giovanissima, ha avuto un brutta emorragia…abbiamo avuto timore di perderla…
il Signore vi ha fatto arrivare in tempo…ma vedo che…vi è successo qualcosa durante il viaggio…
-Sì suor Caterina, sì Lucia, ma ora non è il momento di spiegarvi…questa ragazza deve avere subito del sangue…dottor Fattorusso, procediamo subito a preparare la paziente ad un prelievo per il riconoscimento del suo gruppo sanguigno e preghiamo Iddio di avere il sangue che le servirà…e tu Akin, sei stato tanto generoso finora- disse rivolgendosi all’uomo dalla pelle nera che li aveva guidati nel deserto- ti prego, trasferisci nella saletta accanto a questa camera, tutti i medicinali che siamo riusciti a salvare e trasportare fin qui.
Il professore con gesti sicuri cominciò a prepararsi per intervenire in aiuto della giovane madre, chiaramente in pericolo di vita. Quel volto esangue esprimeva attenzione a quanto stava accadendo e pur non capendo la lingua, sembrava capire ogni parola. Era una fanciulla di sedici anni, si chiamava Kainda, l’uomo che le era accanto, Bandele suo padre, anche lui seguiva ogni discorso e sembrava capire un’unica cosa : che c’erano intorno persone che li avrebbero aiutati.
In quel momento don Francesco Gorini entrò esultante a braccia spalancate si accostò e li strinse a sé dicendo :
-Ecco i Re Magi che il Signore ci manda-
C’erano altre madri con bambini in quella sperduta missione dotata d’un minuscolo ospedaletto che pur nella sua povertà, riusciva ad aiutare, spesso salvare, persone in pericolo di vita anche per una semplice influenza o comunque per una di quelle malattie che nei paesi del consumismo sfrenato, equivalgono a semplici raffreddori.
La chiesetta della missione era illuminata, infatti don Gorini come sempre, era in procinto di celebrare la prima messa allo spuntar dell’alba, circondato dagli abitanti del minuscolo villaggio di povere capanne che stava nascendo tutto intorno alla sua modesta ma accogliente ed amorevole missione. Era accorso subito, lasciando in attesa tutti i presenti nella chiesetta, dove un inconsueto presepio fatto di pastori scuri intagliati nel legno rievocavano una Natività tutta africana.
Così mentre il Professor Landi ed il dottor Fattorusso, collaborati dalla zelante Lucia e da altre presenze volontarie cominciarono a visitare e somministrare cure e medicine, una musica ed un coro provenienti dalla chiesina, riempirono l’aria del Natale e gli animi d’una Pace che solo coloro che operano nel nome del Signore, possiedono.
Appena fu possibile, dopo molte ore di ininterrotto lavoro, si ritrovarono raccolti tutti insieme, intorno ad un tavolo per un essenziale pasto arricchito per l’occasione importante, da biscotti preparati da suor Caterina e suor Rita.
Il professor Landi raccontò dell’assalto da parte d’una banda di disperati, armati di pochi fucili e qualche machete, alla spedizione italiana destinata alla missione di don Gorini. Si trattava d’un carico di alimenti di prima necessità, i delinquenti prima di andar via, avevano anche rubato la benzina dal serbatoio del grande camion, lasciando tutti, fortunatamente illesi ma avviliti di non poter continuare il viaggio. S’accorsero però che fortunatamente le medicine, tra cui un numero rilevante di importanti vaccini, non erano state portate via. Mentre tutti furono presi dall’avvilimento di non poter ripartire rischiando di rimanere in quella zona desertica e solitaria chissà per quanto tempo e con quali conseguenze, i due autisti che guidavano a turno, ispezionando ulteriormente il mezzo, avevano scoperto che due taniche di benzina erano passate inosservate perché situate sotto cassette vuote e capovolte. Questo fu un momento di gioia per tutti, perché così fu possibile arrivare al più vicino villaggio peraltro non molto distante dalla città di Windhoek.
-E qui- continuò il professor Landi- grazie ad un gruppetto di volontari più esperti abbiamo avuto modo di contattare Akin recandoci presso la sua capanna, dove vive con le due mogli ed i sette figlioli e le suocere.
Akin ci ha subito prospettato la possibilità di arrivare sin qui, viaggiando su cammelli.
Infatti anche a noi è sembrato giusto partire solo in tre, visto che eravamo stati derubati di quasi tutto il carico.
Al ritorno siamo attesi in un albergo di Windhoek-
Lì, in quel luogo, lontano dal frastuono di strade illuminate a festa, percorse da gente
sempre angosciata da un mare di falsi bisogni in una società dove il consumismo produce dune di immondizie ed un deserto di sentimenti,dove la gente non trova il tempo di coltivare l’amicizia e di dialogare con le persone più care, il professor Landi ed il dottor Fattorusso trascorsero un Natale profondamente gioioso come non è possibile narrare con povere parole. Si trattennero ancora un po’ di giorni dell’anno nuovo e quindi all’alba del giorno dell’epifania, rimontarono sui cammelli per fare ritorno.
La giovane Kainda col suo bimbo tra le braccia,suo padre Bandele e tanti bambini assonnati e tutti i missionari e don Gorini, li salutarono fin tanto scomparvero all’orizzonte.
Suor Caterina commossa mormorò :- Sembrano davvero i tre re magi…-
E don Gorini: - Sì…che a volte ritornano…
sempre angosciata da un mare di falsi bisogni in una società dove il consumismo produce dune di immondizie ed un deserto di sentimenti,dove la gente non trova il tempo di coltivare l’amicizia e di dialogare con le persone più care, il professor Landi ed il dottor Fattorusso trascorsero un Natale profondamente gioioso come non è possibile narrare con povere parole. Si trattennero ancora un po’ di giorni dell’anno nuovo e quindi all’alba del giorno dell’epifania, rimontarono sui cammelli per fare ritorno.
La giovane Kainda col suo bimbo tra le braccia,suo padre Bandele e tanti bambini assonnati e tutti i missionari e don Gorini, li salutarono fin tanto scomparvero all’orizzonte.
Suor Caterina commossa mormorò :- Sembrano davvero i tre re magi…-
E don Gorini: - Sì…che a volte ritornano…
Stille Nacht
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Bruno Ferrero
Nel piccolo paese di Oberndorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre Mohr, stava dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per provare il canto da eseguire nella notte di Natale.
Tra le navate silenziose si spandeva l'eco di un vocio allegro e di piccole risatine.
"Buoni, silenzio! Incominciamo!". Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall'interno dell'organo uscì uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora.
"Strano", pensò il giovane prete. Aprì la porticina dietro l'organo e dieci, venti topi schizzarono fuori inseguiti da un gatto. Povero padre Mohr. Si voltò a guardare il mantice: completamente rosicchiato e fuori uso. "Pazienza", pensò, "faremo a meno dell'organo". Ma anche i piccoli cantori all'apparire dei topi e del gatto si erano scatenati in una furibonda caccia. Ed ora non c'era più nessuno.
Con l'organo in quelle condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr. Mentre, davanti all'altare maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente l'amico Franz Gruber il maestro elementare che, oltre ad essere un discreto organista, se la cava bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i compiti degli scolari al debole chiarore di una lucerna. "Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per la messa di mezzanotte, un canto semplice che accompagnerai con la chitarra. Qui ho scritto le parole: sta a te vestirle di musica...Ma in fretta mi raccomando!". Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver scorso il testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note più semplici. A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale traboccava di fedeli.
L'altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di candele accese. Padre Mohr celebrava la S. Messa. Dopo aver proclamato il vangelo di Luca che narra la nascita del Salvatore si avvicinò, con il maestro Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono:
"Stille Nacht, Heilige Nacht (Notte silenziosa, Notte santa) ... ".
Dalle navate si persero nel silenzio le ultime parole del canto. Un attimo dopo l'intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la schiera degli angeli del vangelo di Luca.
E da allora non si è più smesso di cantarlo, non solo ad Oberndorf ma in tutto il mondo.
È diventata una delle musiche più care del Natale.
E di padre Mohr e di Franz Gruber che ne è stato?
Nessuno dei due ha avuto il tempo di rendersi conto di quanto hanno donato al mondo senza aver avuto in cambio nulla.
Racconto di Natale
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Liliana Batà
Poco più di 2000 anni fa, in quel piccolo villaggio fatto di case di sabbia e paglia e di spazi ricavati nelle grotte delle colline che abbracciano Betlemme, al primo calar del sole, la gente già dormiva, perché si alzava allo spuntar del primo raggio di luce.
Vivevano quasi tutti di pastorizia: gli uomini si allontanavano talvolta, anche per molti giorni, seguendo i sentieri dei pascoli per le loro pecore, unica fonte di sussistenza. Le donne rimanevano al villaggio, si
occupavano della prole quasi sempre numerosa , dei genitori anziani o malati, filavano la lana e tessevano stoffe, svolgevano faccende legate alla casa, al focolare, al piccolo orto, ai fiori.
In quella lontana sera Ester, era rimasta ancora insonne, sulla soglia di casa ad osservare l’orizzonte ed il cielo dove già la luna rosa e qualche pianeta s’erano accesi solinghi. Ancora qualche ora ed il firmamento
sarebbe apparso nella sua più vivida e travolgente bellezza, trapunto da miliardi di indecifrabili stelle.
Ma altri pensieri occupavano la mente della fanciulla: il suo sposo Azor, l’aveva ripudiata, da pochi giorni. Una amarezza infinita, le opprimeva l’animo. Ad appena diciannove anni, il marito l’aveva rimandata ai suoi
genitori, perché in quattro anni di matrimonio non era riuscita a dargli un figlio.
Forse Azor, l’amava ancora, ma non poteva tollerare di fronte alla sua famiglia ed alla gente del suo villaggio, che la sua bella moglie fosse sterile.Ester ripensò umiliata, al momento del suo ritorno a casa: il padre Eliud e la madre Sarah, l’avevano accolta a capo chino, seppure a braccia aperte, ed anche lei era rientrata nella vecchia casa a testa bassa, vergognosa della sua “colpa innocente”.
Mentre era assorta in questi pensieri, si accorse che i sentieri che passavano nelle vicinanze della sua casa, erano percorsi insolitamente, da gruppi di pellegrini diretti verso Betlemme e si ricordò d’aver sentito dire
che molti si erano messi in viaggio per raggiungere il paese d’origine, a causa del censimento voluto dall’imperatore romano Cesare Augusto che voleva conoscere il numero dei suoi sudditi.
Oltrepassò l’uscio di casa e si diresse verso una grossa pietra verde-muschio che fungeva da sedile. Sedette e s’immerse nuovamente nei suoi malinconici pensieri, quando sentì un sommesso vociare e vide che sulla pietrosa stradina accanto alla sua casa, arrancava un asinello montato da una giovane donna in evidente stato di gravidanza, dal volto sofferente e pallidissimo. L’uomo a piedi, s’era fermato con le braccia alte,
pronto a sorreggerla : l’aiutava a discendere e le parlava con dolcezza, chiamandola per nome : Maria.
Il primo pensiero di Ester fu di benevola invidia : Beata lei-pensò- così giovane e già in procinto d’esser madre!Ma poi si accorse subito che la giovane donna era molto anzi troppo pallida, certamente stanca, forse bisognosa di riposarsi…e avvicinandosi si sorprese nel dire d’impulso:
“Siate benvenuti nella mia casa…”
Anche sua madre Sarah, svegliata da insolite voci si stava ora avvicinando ai pellegrini, recando fra le mani, una ciotola di latte di capra.
“Che il Signore vi renda mille grazie-disse dolcemente Maria, con voce fanciulla- e che la Sua gioia abiti per sempre in voi…”poi rivolse un lungo grato sguardo ad Ester che in quel preciso istante si sentì invadere il
grembo da una strana misteriosa pienezza d’amore…e tutti i suoi tristi pensieri furono scacciati da un’improvvisa profonda serenità… anche il volto di Sarah illuminato da un largo sorriso manifestava un repentino cambiamento d’umore…come se di fronte a quei due pellegrini, Maria e il suo sposo Giuseppe, fosse impossibile essere tristi, od angosciati…
Dopo una breve sosta, i due pellegrini con il loro paziente asinello ripresero il cammino.
Trascorsero alcuni giorni, giorni monotoni, fatti di gesti ripetuti ed uguali, Ester si occupava dei suoi fratelli minori, la madre d’altre faccende domestiche. Una sera però, proprio quando avevano terminato di cuocere
il pane sulle pietre ardenti che fungevano da piccolo focolare all’aperto, per la mattina seguente, la loro attenzione venne distratta dal passaggio di tre cammelli montati da cavalieri che sembravano un po’ disorientati. Infatti li videro discendere dalla sella e guardarsi intorno come chi cerca la direzione giusta.
Le loro vesti ed i mantelli di seta ricamati con fili d’ oro, rilucevano nelle prime ombre della sera, anche i loro turbanti erano sontuosi, dai colori brillanti ed attraversati obliquamente da preziose coroncine di
piccolissime perle rosate, la loro presenza era stata notata anche da altre persone delle case poco lontane, che s’erano anche loro fermate incuriosite a seguirne i movimenti.
Qualcuno disse :“Forse sono re di lontani paesi d’oriente…”
Qualcuno aggiunse:
“Forse hanno smarrito la strada, dove saranno diretti?”
Ad un tratto si vide che uno dei tre re, alzando gli occhi al cielo che s’era ormai imbrunito, sollevava un braccio,per indicare col dito una stella gigante, mai vista prima, ferma allo zenit che per un mirabile prodigio cominciò a muoversi nel cielo lasciando dietro di sé, una luminosa scìa di polvere d’oro…
Tutti videro che i tre re di lontani sconosciuti paesi d’oriente, si affrettarono a rimontare sui loro cammelli,che sembrarono bianchi sotto i raggi della luna.
Tutti, ed anche la giovane Ester e sua madre Sarah, senza proferir altre inutili parole, cominciarono a seguire come rapiti da un campo d’attrazione magnetica, quella stella, che nel suo codice silenzioso, aveva
comandato loro : “Seguitemi!”
Non fu un lungo cammino, e se lungo fu, nessuno se ne accorse, nessuno si stancò.Giunsero presso una grotta d’una collina brulla, dove bivaccavano spesso i pastori, che, avvertiti per primi da voci angeliche, avevano lasciate incustodite le pecore ed i fuochi accesi, per avvicinarsi alla grotta, ma ora essi si accostavano ai lati della soglia, per lasciar entrare tre re, che avevano doni per quel Bimbo, che gli Angeli avevano chiamato “Salvatore” di tutte le genti.
Si prostrarono i tre re, ed Ester sentì il desiderio d’avvicinarsi, e riconobbe in quella giovane madre, ed in quell’ amorevole padre, i due pellegrini che avevano riposato per un po’ presso la sua casa, qualche giorno prima.Guardò lo splendido Bambino e poi sua Madre e Questa ricambiò lo
sguardo.
La grotta era piena d’amore, un amore diffuso nell’aria che si respirava ed entrava nell’anima togliendo dal cuore ogni paura, ogni timore della vita…tutto era gioia e fiducia e speranza…Ester per la prima volta, avvertì il suo bambino muoversi nel grembo mentre con gli occhi coglieva un
sorriso della giovane Vergine Madre…sussultò nel sentirsi toccata, si volse : era Azor, il suo sposo, che la
prendeva dolcemente pel braccio, sussurrandole:
“ Torniamo a casa Ester, ti amo, non posso vivere senza di te!”
Oggi è festa
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Sari
La mamma chiamò i suoi figli in cucina e diede loro la merenda: pane e marmellata di albicocche… quell’estate l’albero del loro piccolo giardino era stato davvero generoso.
Aspettò che finissero il breve pasto.
- Bambini, debbo dirvi qualcosa che riguarda il Natale. Sapete che il babbo è rimasto senza lavoro e... -
- Ma no mamma, il babbo va a lavorare tutte le mattine, come al solito. -
- Sì, va a spalare la neve dalle strade del centro cittadino ma il denaro è poco e noi dobbiamo risparmiare. Perciò, questo Natale non avremo il dolce e la Befana non verrà a portare caramelle. -
-“Niente dolce? Non lo comperi mica il dolce, lo fai tu mamma.”- disse sicura la figlia più grande.
-“E la Befana? Lei non sa che il babbo non lavora.”- considerò quella di mezzo.
Il piccolo taceva, ma aveva l’espressione grave di chi sente, pur non comprendendo, che una catastrofe sta per abbattersi sul suo capo.
Il giorno terminò e il babbo tornò a casa stanco. Aveva il viso serio, la pelle arrossata e le dita delle mani anchilosate dal freddo.
Quella sera cenarono in silenzio… ognuno aveva i suoi pensieri ed i piccoli avvertivano il senso di cupo mistero che riguardava il lavoro del babbo… che guadagnava poco e pur tornava stanco.
Il giorno dopo, la madre disse alle figlie che aveva bisogno del loro aiuto e mandò il figlio minore a giocare in veranda.
-“Il babbo ed io abbiamo pensato che la Befana arriverà solo per vostro fratello.”- disse appena la porta si fu richiusa dietro il capo di riccioli accesi del figlio.”-
-“Perché?”- fu il grido unanime delle due bimbe.
-“Perché lui è troppo piccolo per una delusione così grande. Lui non sa che la Befana sono io e non capirebbe.”-
-“La Befana non sei tu!”- disse con forza una delle bimbe.
-“Lo sapevi dallo scorso anno – disse la mamma sgomenta – te lo rivelò la tua compagna di banco, ricordi? – insistette mettendo una mano sopra quella della sua bambina delusa.
-“Mamma, dimmi che stai scherzando, che la Befana non sei tu e che arriverà.” – insistette la bimba con voce tremula.
La mamma si alzò e, volgendo le spalle, disse che potevano andare a giocare anche loro.
Ma la tristezza, che aveva accarezzato il capo delle due bimbe, ora le serrava con forza il cuore.
Pochi giorni prima di Natale, arrivò il sacerdote con il solito pacco regalo per la famiglia. Era più abbondante del solito e c’era tutto l’occorrente perché la mamma potesse cucinare il dolce.
Quel regalo, ravvivò lo sguardo di tutti ed il Santo Natale fu allegro come il solito.
La vigilia dell’Epifania, la mamma ed il babbo ridevano e si accarezzavano con misterioso sguardo. Sembravano complici.
Nel mattino di festa, in casa regnava il silenzio e c’era un’aria come di attesa… sospesa
La figlia maggiore sapeva che per lei non ci sarebbe stato nulla, la seconda pensava all’ipotesi che la mamma potesse essersi sbagliata… ma nessuna delle due parlò.
Svegliarono il fratellino e tutti insieme andarono in cucina.
Trovarono la madre indaffarata ed il padre occupato con la legna per la stufa.
Sul tavolo, tre calze di tulle colorato fecero esplodere di gioia tre piccole gole.
-“Mamma, ma avevi detto… “- cominciò la maggiore, sottovoce, sfiorando con mano leggera il fianco della madre.
-“Domani, ne parleremo domani.” – rispose lei con fare allegro – “Oggi è festa.”-
Gli scarponi
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dal web
Era la vigilia di Natale. Una bimbetta pallida e scarna, vestita di cenci, si aggirava per le vie luminose della città chiedendo l'elemosina ai passanti che, frettolosi, neanche le badavano. Si chiamava Celestina. Era rimasta orfana a soli sette anni, e coloro che l'avevano raccolta la obbligavano a mendicare tutto il giorno e la picchiavano senza pietà se, rincasando, non portava un bel gruzzolo di denari.
Quella sera la povera bimba, era anche più triste del solito e si sentiva più che mai sola ed estranea, tra quella folla lieta, tra quelle vetrine rigurgitanti di belle cose. Sapeva che quella notte il Bambino Gesù avrebbe portato giocattoli e dolci a tutti i bambini meno che a lei. Infatti come avrebbe potuto Gesù ricordarsi dell'umile Celestina, con tanti bambini che c'erano al mondo?
E se poi, nella sua bontà divina, Egli le avesse voluto portare qualche dolce o qualche giocattolo, dove l'avrebbe deposto? Celestina non possedeva neanche un paio di scarpette da preparare sotto la cappa del camino. Pensando a questo, la bimba si trascinava di mala voglia verso la sua povera dimora, dove non c'era nessuna persona cara ad attenderla, quando, passando davanti al negozio d'un calzolaio, si fermò. Sopra un banco stavano allineate tante scarpe d'ogni dimensione e d'ogni forma, e il padrone, di tutta quella merce, invece di sorvegliarla, stava dormicchiando in un angolo della bottega.
Celestina non seppe resistere alla tentazione: con un rapido gesto afferrò il primo paio della fila, che per combinazione erano scarponi da uomo, fuggì con la refurtiva, stringendosela al petto. Finalmente anch'essa avrebbe avuto un paio di scarpe da mettere sotto il camino. Senza mai fermarsi, corse, corse attraverso le strade popolose, salì tutto d'un fiato le scale di casa ed entrò finalmente nella sua soffitta. Subito depose gli scarponi presso il camino spento, poi entrò soddisfatta nella cassa da imballaggio che le serviva da letto e, rannicchiatavisi tutta, attese.
Chissà se il Bambino Gesù si sarebbe ricordato quest'anno di lei? Che cosa le avrebbe portato? Forse una bambola con un vaporoso vestito di seta rosa e di pizzo, come quella che aveva visto nella ricca vetrina? Sarebbe venuto il Bambino in persona o avrebbe mandato un angelo?
Ma ecco che di colpo la soffitta fu tutta illuminata da una luce abbagliante. In mezzo alla stanza si teneva ritto un angelo, con grandi ali bianche e un viso dolcissimo incorniciato da riccioli biondi. Egli teneva aperto in mano un grande registro e, dopo aver letto attentamente in esso, esclamò:" Sì, c'é scritto Celestina. Ed é qui che abita. Anche per lei ho qualcosetta." E dal suo mantello trasse fuori proprio la bambola vestita di rosa. Avvicinatosi al caminetto, stava per deporla in terra, quando vide gli scarponi. "Ma come mai stanno qui queste scarpe? Certo qui c'é uno sbaglio." Rimise allora la bambola sotto il mantello e, dopo aver lanciato uno sguardo severo alla bimba, che dal suo lettuccio lo fissava come ipnotizzata, scomparve improvvisamente.
La bimba comprese il rimprovero contenuto in quello sguardo. Aveva commesso una gran cattiva azione, impadronendosi di quegli scarponi che non le appartenevano. Come mai si era lasciata vincere dalla tentazione? Per tutta la notte la povera piccola si girò e rigirò nel suo giaciglio singhiozzando pentita.
Appena fu mattina, si vestì in fretta, prese i malaugurati scarponi e corse dal vecchio calzolaio, che trovò appunto sulla soglia della sua bottega, e gli porse le scarpe rubate confessandogli piangendo la sua colpa. Poi fuggì via e ritornò nella sua soffitta. Ma qui l'aspettava una grande sorpresa. Seduta in mezzo al piano del camino, stava la bambola vestita di rosa, circondata da una grande quantità di dolci appetitosi; Celestina sgranò gli occhi....non era un sogno,ma il premio per il suo gesto.
I gessetti colorati
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Bruno Ferrero
Nessuno sapeva quando quell'uomo fosse arrivato in città. Sembrava sempre stato là, sul marciapiede della via più affollata, quella dei negozi, dei ristoranti, dei cinema eleganti, del passeggio serale, degli incontri degli innamorati.
Ginocchioni per terra, con dei gessetti colorati, dipingeva angeli e paesaggi meravigliosi, pieni di sole, bambini felici, fiori che sbocciavano e sogni di libertà.
Da tanto tempo, la gente della città si era abituata all'uomo. Qualcuno gettava una moneta sul disegno. Qualche volta si fermavano e gli parlavano. Gli parlavano delle loro preoccupazioni, delle loro speranze; gli parlavano dei loro bambini: del più piccolo che voleva ancora dormire nel lettone e del più grande che non sapeva che facoltà scegliere, perché il futuro è difficile da decifrare... L'uomo ascoltava. Ascoltava molto e parlava poco.
Un giorno, l'uomo cominciò a raccogliere le sue cose per andarsene. Si
riunirono tutti intorno a lui e lo guardavano. Lo guardavano ed aspettavano.
"Lasciaci qualcosa. Per ricordare!" - dicevano. L'uomo mostrava le sue mani vuote: che cosa poteva donare? Ma la gente lo circondava e aspettava.
Allora l'uomo estrasse dallo zainetto i suoi gessetti di tutti i colori, quelli che gli erano serviti per dipingere angeli, fiori e sogni, e li distribuì alla gente. Un pezzo di gessetto colorato ciascuno, poi senza dire una parola se ne andò.
Che cosa fece la gente dei gessetti colorati? Qualcuno lo inquadrò, qualcuno lo portò al museo civico di arte moderna, qualcuno lo mise in un cassetto, la maggioranza se ne dimenticò.
È venuto un Uomo ed ha lasciato anche a te
la possibilità di colorare il mondo.
Tu che hai fatto dei tuoi gessetti?
C'ero anch'io
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Liliana Batà
C'ero anch'io tra la folla, quando l'uomo che disegnava angeli e madonne, sui marciapiedi della strada, nell'andar via distribuì per lasciare qualcosa di sé in ricordo, i suoi gessetti colorati. Quando la sua mano si rivolse verso di me, presi con gioia quel gessetto: mi capitò quello di colore rosa.
Pensai: è un colore di buon auspicio.
Trascorsi la giornata ancora a pensare : cosa potevo disegnare, anzi colorare di rosa?
dei bei tramonti?
potevo colorare di rosa le nuvole d’un giorno piovoso?
o il nastro d'un bambino che frequenta la seconda classe ma non ha i soldini da sprecare per l'acquisto di un nastro perché il papà ha perduto il lavoro?
avrei potuto far fiorire gli albicocchi della campagna vicina, ricoprendo i rami spogli di allegri fiorellini rosa?…
…o anche gli alberelli spogli ai bordi della strada?…
O la luna piena di quella sera?
Poi mi ricordai di quella giovane immigrata di colore, che abita in un basso di fortuna, dove ieri ha dato alla luce una bambina…
una bambina!
oh care donne che la natura ha reso portatrici di vita!
Quella bimba appena nata ha colorato di rosa la vita della mamma povera...
Sono andata sulla porta di quel basso, ed ho disegnato un lungo nastro rosa, per indicare a tutti i passanti che lì era nata una bimba.
E così, è cominciata una piccola processione di curiosi che poi sono diventati come i pastori alla grotta di Gesù :ognuno nel visitare la piccola e povera casa ha portato un dono alla bimba che dormiva serena in un cesto di vimini come culla improvvisata, avvolta in una copertina consunta ma che ancora sapeva emanare il caldo dell’amore.
Quel basso, quella donna povera e quella bimba, come novella grotta della natività, furono tanto colme d’amore che la porta non riuscì più a chiudersi: una nuvola d’amore tutta rosa ne uscì liberata all’aperto ed invase la strada e tutta la gente che correva per la fretta di raggiungere chissà cosa, iniziò a camminare piano ed a sorridere serena.
Non avrei mai immaginato di suscitare tanto amore per effetto d’un nastro sulla porta, fatto con quel semplice gessetto rosa, donato dall’uomo che disegnava madonne per le strade!
Che belle storie!!!!!!!
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